Non è ‘la fine della mia presidenza’ ma il caso non è chiuso
“My God. È la fine della mia presidenza. Sono fottuto”. Più di tante altre, le parole pronunciate da Donald Trump quando l’inchiesta sul Russiagate fu affidata a Robert Mueller suggeriscono che l’affare non è affatto chiuso, come vorrebbe la propaganda del presidente. A differenza di quanto pretendono i tweet di Trump – ha fatto notare il ‘Guardian’, che ha potuto leggere il rapporto nella versione consegnata al Congresso – sono almeno undici gli esempi di “potenziale ostruzione della giustizia” individuabili nella condotta del presidente. Tra questi il tentativo di licenziare il procuratore speciale; le disposizioni date ai collaboratori di negare che l’avesse fatto; la rimozione del direttore dell’Fbi James Comey; le strette relazioni del presidente con persone condannate in inchieste collegate, come Michael Flynn, Paul Manafort, Michael Cohen.
Lo stesso Mueller, scrive che l’inchiesta ha scoperto “molti legami tra i manager della campagna di Trump e persone legate al governo russo”. E che “la campagna contava di ottenere un beneficio elettorale dalle informazione rubate e diffuse grazie all’impegno russo”. Un impegno profuso in vari modi e circostanze, coinvolgendo più responsabili dello staff del futuro presidente. Molti dei quali hanno fatto ricorso al diritto riconosciuto dal Quinto emendamento di non fornire elementi che li potessero incriminare. Arrivando a cancellare parti della propria posta elettronica, che avrebbero potuto essere utili all’inchiesta. Del resto, se Mueller rinuncia a raccomandare la formalizzazione di un’accusa nei confronti del presidente da parte del Ministero della giustizia, lo stesso procuratore scrive che il Congresso potrebbe farlo.
Anche perché William Barr, ministro della Giustizia (con il fare di un legale del presidente), ha assicurato che la Casa Bianca ha “pienamente collaborato” con l’inchiesta di Mueller, tacendo tuttavia il rifiuto opposto da Trump alla richiesta del procuratore di essere ascoltato.