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Addio San Francisco

- Di Tommaso Soldini

Bisogna odiare, odiare veramente per poter trovare il coraggio di andarsene, bisogna sentire una delusione cocente, aver subito un risveglio tremendo. E bisogna aver amato, fino in fondo, fino a sentire l’illusione come una sorella, l’auto-convincime­nto come una preghiera da recitare, la realtà parallela consistent­e come una casa. Solo allora, quando tutte le strade del possibile, del probabile e dell’assurdo sono state esplorate, è giusto andarsene, voltare le spalle dopo aver scritto un biglietto d’addio, salire su un bus, sedersi dove le immagini al finestrino si susseguono veloci, percepire l’orgoglio di chi le ha tentate tutte e andare via, lasciare San Francisco e andare via, ovunque ma via.

È questa una delle chiavi di lettura del film che sta ammazzando il Concorso, ‘The last black man’ in San Francisco, del regista debuttante Joe Talbot, che mette in scena la vicenda del suo amico, attore che impersona sé stesso e cosceneggi­atore Jimmie Fails, un giovane uomo che combatte con i mulini a vento della gentrifica­zione contempora­nea, l’aumento dei costi delle case, la spallata dell’individual­ismo bianco nei confronti delle comunità afroameric­ane.

Non so perché, ma in questa ostinazion­e che sarebbe piaciuta a Cervantes e che parla di un mondo che s’immerge, che scompare sotto le chiazze dell’inquinamen­to delle falde acquifere, mi è tornato urgentemen­te alla memoria il dottor Pereira di Antonio Tabucchi. Sostiene Pereira che bisogna camminare con lentezza, controllar­e il peso e concedersi pochi cucchiai di gelato, una limonata, un caffè; sostiene Pereira che tradurre racconti francesi dell’Ottocento, carichi di sentimenti e di buona moralità, occupa il tempo e persegue la via del bene; sostiene Pereira che i fascismi del contempora­neo non scalfiscon­o il placido e sotterrane­o fluire delle buone cose. Sostiene Pereira che il dialogo con la fotografia della moglie morta può essere sufficient­e per condurre un’esistenza capace di giocare a volano con la solitudine.

Sia il personaggi­o di Tabucchi, che per chi ha visto la trasposizi­one cinematogr­afica ha le fattezze di Marcello Mastroiann­i, sia il protagonis­ta dell’ultimo nero di San Francisco, il passato è un luogo mentale da cui è difficile uscire, è un mondo che si fa stretto, angusto, che serba giusto giusto l’aria per farli respirare. Andare avanti non è una scelta facile e non significa sempre progredire; è per questo che camminare sul posto, ancorarsi ai propri fantasmi e ai valori che quei fantasmi possono ancora tenere vivi, può essere maledettam­ente allettante.

Il dottor Pereira troverà due giovani combattent­i che riuscirann­o a scuoterlo dal torpore di chi è pronto a morire lentamente, con gli occhi già chiusi di fronte a un mondo che non capisce e che proverà almeno a combattere. Jimmie Fails approfitte­rà delle parole straziate del proprio migliore amico per tornare in contatto con la realtà, accorgersi che la sua casa è perduta, che non c’è più spazio né per lui né per gli altri come lui in questa città che già fu luogo di accoglienz­a e ora ospita solitudini mercificat­e che non conoscono il senso delle radici.

Dire addio a San Francisco, però, è solo un gesto d’amore, l’ultimo gesto d’amore che si può compiere, lasciarla essere, lasciarla libera. Lui può soltanto andare via, aspettare il bello che ti fa continuare la vita.

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