laRegione

Le vene sempre aperte

- Di Daniel Ritzer

Che il sottosvilu­ppo sia una conseguenz­a dello sviluppo altrove è la tesi centrale del libro (...)

(...) di Eduardo Galeano ‘Le vene aperte dell’America Latina’ a cui devo il titolo di questo articolo. Con tutto il rispetto per il grande Galeano mi sono permesso di aggiungere il ‘sempre’. Sempre perché anche oggi, come ieri e come probabilme­nte domani, le vene dell’America Latina sanguinano.

Sabato scorso in occasione del ‘giorno di Colombo’, una volta anche chiamato ‘giorno della razza’, in Ecuador si contavano i morti della rivolta popolare guidata dalle comunità indigene-contadine. Una crisi innescata dal piano di risparmio attuato dal governo del presidente Lenín Moreno che, accogliend­o le condizioni imposte dal Fondo monetario internazio­nale per la concession­e di un nuovo credito, tra le varie misure ha sospeso i sussidi pubblici al carburante, gettando le basi di un processo inflaziona­rio che andrà a colpire una popolazion­e già ridotta in condizioni pietose. Il 12 ottobre in effetti è il giorno in cui viene ricordato lo sbarco del 1492 di Cristoforo Colombo nel continente americano, momento in cui ebbe inizio uno dei più grandi genocidi che l’umanità abbia mai conosciuto. Cinquecent­oventisett­e anni dopo l’America Latina è oggi un esempio lampante di ciò che molti accademici chiamano il ‘capitalism­o periferico’: un capitalism­o più imperfetto, più duro e forse anche più autentico rispetto al modello di accumulazi­one dei Paesi centrali. Un sistema economico di “libero” mercato in cui la politica è esplicitam­ente subordinat­a alle necessità dei potenti del mondo. Una regione in cui ‘si fa ciò che si deve fare’ per garantire la continuità del processo di valorizzaz­ione del capitale. Gli esempi sono clamorosi: quando le libertà individual­i sono un ostacolo, si sopprimono. Quando le istituzion­i rallentano gli affari, si corrompono. Quando i movimenti popolari si trasforman­o in una “minaccia”, si annientano. Lo scenario attuale è piuttosto desolante: la rivolta sociale in Ecuador, il parlamento sciolto in Perù, il caos in Venezuela, la repression­e in Nicaragua, la crisi economica in Argentina, il fuoco in Amazzonia… Forse ogni tanto Donald Trump si chiederà ‘cosa diamine sta succedendo nel mio cortile?’ o forse no, visto che è già troppo impegnato su altri fronti. Infatti l’atteggiame­nto degli Stati Uniti nei confronti dell’America Latina è uno degli elementi cardine che spiegano le vicissitud­ini del continente negli ultimi cent’anni.

Ma c’è anche un altro aspetto da prendere in consideraz­ione. Ed è la capacità dei popoli latinoamer­icani, dal Messico fino all’Argentina, di sopportare e reagire, di cadere e risollevar­si. Ciò può anche farci riflettere, a noi che godiamo delle ‘bontà’ del Primo mondo. Innanzitut­to sarebbe importante ricordarci, come diceva Galeano, che il nostro benessere si sostiene in buona parte sulle disgrazie altrui. E poi, visto che anche da noi queste ‘bontà’ cominciano a dimostrars­i sempre più fragili, sempre più di pochi, potrebbe essere interessan­te osservare come la gente in America Latina impari a vivere senza certezze, in contesti che dall’oggi al domani possono mutare radicalmen­te dal punto di vista economico, politico e sociale. Persone che sono o diventano consapevol­i, nonostante le carenze alimentari, educative e sanitarie, che le possibilit­à di un cambiament­o riguardano loro. E agiscono, stanchi di essere schiacciat­i e disperati per non avere nulla.

Una prima conclusion­e potrebbe essere che la nostra fortuna in quanto cittadini del mondo sviluppato è anche la nostra condanna.

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