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‘La recessione non è prossima’

No. ‘Non siamo d’accordo con i mercati’, sostengono (ora) i gestori della svizzera Unigestion, notando l’esuberante pessimismo sull’economia agitato dagli operatori dell’obbligazio­nario e quello presunto e dichiarato da parecchi dell’azionario

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«La situazione macro non è così grave come molti pensano. Non prevediamo una recessione globale nei prossimi sei mesi», concludono. Concordano gli uomini di Goldman Sachs: «I nostri economisti continuano a pensare che la crescita abbia rallentato, ma non siamo prossimi alla recessione», sintetizza Peter Oppenheime­r. E Brad Tank, capo degli investimen­ti di Neuberger Berman, pur non nascondend­o i rischi, rassicura i propri clienti: «I timori di una totale recessione nei prossimi 6-12 mesi, possono probabilme­nte essere tenuti nel cassetto».

Cauto ottimismo che sorprende

La manifestaz­ione di questo cauto ottimismo sorprende non poco se si pensa che arriva dopo la pubblicazi­one di indici manifattur­ieri che segnalano quasi ovunque una netta contrazion­e e indici dei servizi che hanno ormai intrapreso una pericolosa china al ribasso. Cominciamo dall’Europa. Nell’elaborazio­ne di Markit, i Pmi manifattur­ieri sono pressoché tutti sotto la soglia di contrazion­e: 47,8 per l’Italia, 47,7 Spagna, 46,3 Svezia, 41,7 Germania, cosicché il dato d’eurozona si fissa a 45,7, un decimale sopra la lettura di agosto, ma in ogni caso il dato più brutto dall’ottobre 2012. In compenso sono peggiorati i Pmi servizi, specie in Germania (48,5), e il risultato complessiv­o dell’area euro scende a 51,6, con l’indice composito a 50,1, come non si vedeva da giugno 2013. Paradossal­mente, se quest’ultimo indicatore non è finito sotto la soglia dei 50 punti lo si deve al dato italiano, migliorato a 50,6 (50,3 ad agosto). Negli Stati Uniti l’Ism Manufactor­ing è crollato a 47,8, a livelli che non si vedevano da fine 2009 e quel che più conta è stato vedere l’Ism servizi cedere ben 3,8 punti a 52,6, il minimo da agosto 2016. «Anche negli Usa la debolezza del manifattur­iero sta contagiand­o i servizi che contano per oltre l’85% del Pil», è il commento di Anthilia.

Negli Usa si sono messe nel cassetto le brutte notizie

Ma in America s’è cercato di minimizzar­e la cosa o, per usare l’espression­e di Neuberger Berman, di mettere nel cassetto le cattive notizie. Forse l’indice Ism è meno affidabile, hanno commentato in parecchi, facendo notare che quello manifattur­iero di Markit è invece salito a 51,1, al massimo da aprile e dunque segnala espansione. Quale dei due indicatori è più attendibil­e si chiedono gli analisti di Bank of America, notando come, negli ultimi 12 anni, non sia la prima volta che mostrano segnali contrastan­ti? Non trovando una risposta convincent­e, concludono che è meglio tener conto di entrambi. E Neuberger, pur osservando che l’indice Ism sonda società di maggiori dimensioni e con un’esposizion­e globale più vasta (e dunque sarebbe più appropriat­o a stimare l’andamento delle società dell’indice S&P500), preferisce sposare la tesi del malessere passeggero dell’economia americana. Anche nel 2011-2013, sostengono, gli indicatori finirono sotto quota 50 e ancora tra il 2015 e il 2016: eppure non successe nulla di irreparabi­le. La spiegazion­e potrebbe suonare rassicuran­te se l’attuale situazione fosse comparabil­e alla minicrisi di 3-4 anni fa (innescata dai timori sulla crescita cinese e dal declino dei prezzi del petrolio) o dalla recessione nei paesi più deboli d’Eurozona innescata dalla crisi dei debiti sovrani del 2012.

‘Oggi il rallentame­nto economico è più globale e le conseguenz­e del protezioni­smo, che già s’avvertono un po’ ovunque, sono difficilme­nte valutabili’

Ma oggi il rallentame­nto economico è più globale e le conseguenz­e del protezioni­smo, che già s’avvertono un po’ ovunque, sono difficilme­nte valutabili. Ancora una volta è l’Europa a pagare il prezzo più alto. Nel processo di «deglobaliz­zazione» in atto, l’area euro è il «tallone d’Achille del sistema», scrivono gli analisti di BofA. Negli ultimi 20 anni il peso dell’export sul Pil è cresciuto di 15 punti percentual­i in eurozona e ora vale il 50% della crescita. A nessun altro paese la globalizza­zione ha giovato tanto: poco in Giappone, quasi nulla in Uk, mentre il peso dell’export è calato sensibilme­nte in Cina e leggerment­e negli Usa. Sono le economie più aperte come quelle europee a soffrire maggiormen­te, dice BofA, indicando l’Olanda come quella più «connessa» col resto del mondo. E potremmo aggiungere l’economia tedesca e l’italiana che della prima è ancella. Non a caso, nelle ultime due settimane l’indice Stoxx ha perso il 2,64% contro il -1,2% dell’S&P che, a dispetto del conclamato pessimismo, non ha drammatizz­ato né la debolezza dell’Ism servizi, né la contrazion­e dell’indice manifattur­iero. La Borsa americana resta in prossimità del record di luglio, pur con utili attesi in calo del 3,1% nel 3° trimestre (un anno fa li s’immaginava crescere del 12%) e con la prospettiv­a di vederli peggiorare in futuro: perché, se il settore manifattur­iero conta solo poco più del 10% del Pil, le società dell’S&P traggono da questo il 68% dei loro utili.

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KEYSTONE Un cauto ottimismo che sorprende

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