L’economia del futuro
Bertrand Badré non ha paura di dichiarare la sua appartenenza a mondi che affrontano l’ostilità di buona parte dell’opinione pubblica globale. Definendosi, per esempio, il prodotto di una delle più famose fabbriche d’élite del mondo (la francese Ena, dalla quale viene l’amico e oggi presidente Emmanuel Macron, che ha scritto anche la prefazione del suo ultimo libro) e non facendosi scrupolo di arrivare a dire che la finanza, quella che ha prodotto la più grave crisi che l’Occidente abbia affrontato dalla Seconda guerra mondiale, potrebbe persino salvare il mondo. Ed è proprio questo il titolo del più recente saggio dell’economista ex direttore generale della World Bank.
Davvero è così?
La finanza può essere una forza distruttiva se ne perdiamo il controllo, ma, guidata con responsabilità, può avvantaggiare tutti. In fondo, è la finanza – insieme al linguaggio binario dell’informatica – l’unica vera lingua universale che ci fa superare la Torre di Babele: ciò rende possibile gli scambi tra città, professioni, Paesi (quella che noi economisti chiamiamo globalizzazione) che ci ha permesso di vivere meglio. Tuttavia, una finanza che non riusciamo più a regolare diventa un linguaggio che parla parole (prezzi) non più capaci di dire il valore dei beni che ci scambiamo e ciò può essere distruttivo. C’è però un’altra ragione molto pratica per la quale parlare di finanza è, oggi, essenziale.
Quale?
Ci sono 14 trilioni di dollari parcheggiati in titoli con rendimento negativo. È come se il mercato pagasse i debitori per indebitarsi ulteriormente. In nessun altro mercato, l’acquirente di un bene o di un servizio è pagato per comprarlo.
‘La finanza, quella che ha prodotto la più grave crisi che l’Occidente abbia affrontato dalla Seconda guerra mondiale, potrebbe persino salvare il mondo’
Una cifra enorme che, sulla scala di fabbisogno finanziario, sarebbe necessaria a realizzare gli obiettivi di sviluppo sostenibile fissati nel 2015 dall’Onu: eliminare la povertà assoluta e la fame; assicurare a tutti i ragazzi del mondo un’istruzione simile a quella garantita in Occidente; l’accesso per tutti ad acqua potabile e a servizi sanitari; fermare i cambiamenti climatici.
Com’è possibile che con una tale cifra impiegata «a perdere», non abbiamo soldi sufficienti da investire per evitare di avere danni molto superiori che saranno i nostri figli a pagare? Anzi, com’è possibile che investiamo così poco se ci pagano per prendere soldi in prestito?
In realtà stanno diventando sempre più numerose le iniziative di “finanza d’impatto” e le istituzioni che raccolgono soldi finalizzati a investimenti sociali. Esse non fanno, però, un sistema. Perché, ad esempio, le banche non investono di più nella transizione dal modello energetico basato sul fossile a uno legato alle rinnovabili? A mio avviso, in parte ciò succede perché siamo ancora spaventati da quello che è successo con la Grande Crisi dieci anni fa. E, in parte, perché le conseguenze di quella crisi sono state anche una burocratizzazione di molte istituzioni finanziarie che hanno perso capacità di rischiare e innovare.
A proposito di crisi, quante possibilità ci sono che ci possa essere una recessione o addirittura una nuova crisi finanziaria?
Una recessione potrebbe essere già cominciata, in Germania, nel Regno Unito, in alcuni Stati americani. Una crisi finanziaria grave potrebbe, però, essere persino peggiore di quella di dieci anni fa. Per quattro motivi. Il primo è che le banche centrali si troverebbero senza munizioni: con tassi d’interesse così bassi e con i bilanci gonfiati di titoli comprati con i quantitative easing, è difficile immaginare ulteriori stimoli, anche se, ormai, i banchieri centrali ci hanno abituato a operazioni non convenzionali.
La seconda preoccupazione è la diffusione degli algoritmi: se le decisioni di vendita sono affidate ad automatismi costruiti su logiche simili, una piccola fiamma potrebbe produrre un incendio di grandi dimensioni.
La terza novità è che la concentrazione di masse monetarie nelle mani di pochi individui è ulteriormente aumentata: anche un solo errore potrebbe costare molto caro.
E, infine, c’è che, non necessariamente, i potenti del mondo troverebbero oggi quell’intesa che ci salvò nel 2008. Il problema è che, come disse Churchill, una “crisi non va sprecata” e, forse, noi abbiamo sprecato l’occasione di una riforma complessiva. La strada per il futuro è quella di affiancare, alla riduzione del rischio, incentivi che orientino la finanza a impatti di medio periodo.
Ma chi può riformare il sistema e governare una globalizzazione così disordinata?
Ritengo che gli strumenti (Banca mondiale, Fondo monetario internazionale, banche centrali, G20 e G7, Financial Stability Board) ci siano già. Bisogna farli lavorare, liberandoli da zavorre burocratiche e concentrandoli su pochi obiettivi. È costoso in termini di tempo necessario a raggiungere consenso, ma non abbiamo tempo di inventare istituzioni nuove. Del resto, non c’è solo la necessità di “salvarci”, ma anche quella di conservare la legittimità del nostro modello – democratico – di governare le cose del mondo. Del resto, un’alternativa c’è: si chiama Cina. Per riuscire a rispondere a un futuro così incerto ed entusiasmante – perché tutto è davvero possibile – c’è però un’altra condizione che viene ancora prima.
Quale?
Dobbiamo ricominciare a pensare come società. A concepirci come comunità (locali, nazionali, sovranazionali) fatte di istituzioni, aziende, associazioni in grado di sperimentare soluzioni. Non è più possibile affidarci all’idea che il sistema si autoregoli, perché la crisi del 2008 dimostra che non è vero. Soprattutto, dobbiamo superare la sindrome dell’osservazione impotente di una complessità – finanziaria, ad esempio – che troviamo non più comprensibile. Ritrovare entusiasmo. Per fare questo credo che persino le migliori università e business school del mondo debbano mettersi in discussione.