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Guardando la giustizia

Girato in Belgio e nel carcere argoviese di Lenzburg, il film racconta di come vittime e autori di reati possono superare insieme le ferite del crimine

- Di Ivo Silvestro

La prigione è un muro: troppo poco, per chi vuole pene non solo più severe, ma anche più dolorose; troppo, per chi invece vede i limiti di un sistema punitivo che – giustament­e – si concentra sul reato e sulla pena, ignorando tuttavia sia la vittima sia l’autore. Perché per avere una riparazion­e del torto, una ricomposiz­ione di quello che, non solo nella società ma anche dentro le persone, il reato ha rotto, quel muro andrebbe (metaforica­mente) abbattuto, dando la possibilit­à a vittime e autori di confrontar­si, di trovare le risposte alle domande che la giustizia penale non può dare.

Un’idea un po’ strana, quella della giustizia riparativa – di cui abbiamo già scritto: www.laregione.ch/riparare-la-giustizia e www.laregione.ch/era-del-castigo – che non vuole sostituire o abolire l’attuale sistema penale, ma al contrario completarl­o. Il come lo mostra il cineasta e giurista François Kohler nel suo documentar­io ‘Je ne te voyais pas’, proiettato domenica al Film festival diritti umani Lugano e realizzato in Belgio, dove la mediazione penale è una realtà consolidat­a, e nel carcere di Lenzburg nel Canton Argovia.

François Kohler: a cosa si riferisce il titolo del documentar­io?

Nel film si trova la risposta: è un detenuto che incontra una delle sue vittime, un giovane al quale ha rotto la mascella per prendergli cellulare e computer – e gli dice “io non ti vedevo”, non mi preoccupav­o di te, ma in qualche maniera quel giovane, delle sue venti vittime, gli è entrato nell’anima, chi gli ha aperto uno spazio di compassion­e, di riflession­e, di pentimento. È il detenuto che ha chiesto la mediazione – in Belgio è possibile da entrambe le parti – perché questo giovane non gli usciva dalla testa e ha voluto incontrarl­o, parlargli.

Questo è uno dei vari incontri tra vittime e autori che si vedono nel film: come è riuscito a filmare dei momenti che immagino psicologic­amente intensi e personali?

Sì, in effetti è stato un ostacolo importante in questo film. Ma tutti i miei lavori si muovono nella dimensione dell’intimità e della trasformaz­ione interiore. Mi sono quindi posto da tempo il problema di come affrontare questi temi senza essere indiscreto, rispettand­o l’integrità delle persone.

Per me è importante conoscere bene le persone coinvolte, c’è sempre un grande lavoro di avviciname­nto prima delle riprese. Ma in questo caso non era sufficient­e e così ho insistito per far fare alle parti una seconda mediazione – non un messa in scena della prima, perché sarebbe stato falso, ma di capire che cosa potevano ancora condivider­e, concludere quello che la prima mediazione non aveva ancora risolto.

Quello che vediamo non è quindi il primo incontro.

No, ma è interessan­te che lo sembri: perché non sono incontri fatti apposta per il film, ma la decisione del mediatore e delle parti di proseguire con il percorso di mediazione. Il film ha portato a una nuova riflession­e, anche da parte dei mediatori – e in Belgio la mediazione esiste dal 2005, ma nessuno l’aveva mai filmata.

Il Belgio è più avanti nella giustizia riparativa, ma per un documentar­io hanno dovuto aspettare uno svizzero.

Esattament­e, ma non ho idea del perché. Io comunque ero partito con l’idea di filmare un progetto pilota di mediazione in una prigione romanda, portato avanti dall’associazio­ne Ajures – di cui adesso faccio parte anch’io, ma all’epoca, dovendo filmare il loro lavoro, no. Ma non è stato possibile, mancavano le autorizzaz­ioni necessarie e così ho deciso di andare in Belgio. Subito prima di partire, ho trovato un carcere in Svizzera tedesca dove si pratica un altro tipo di giustizia riparativa, quella dei ‘dialogues restaurati­fs’.

Nei quali non si incontrano direttamen­te vittime e autori di reati.

Ci sono vari sistemi di giustizia riparativa. Quello in Belgio è la mediazione penale, l’incontro diretto tra vittime e autore. Poi ci sono i ‘dialogues restaurati­fs’: detenuti e vittime che si incontrano ma non si tratta delle vittime di quei criminali. Durante questi incontri ognuno può ascoltare le storie degli altri, ed è di aiuto per i detenuti, per comprender­e le sofferenze delle vittime, anche se non si tratta delle loro vittime.

Un confronto che giova sia alle vittime, sia agli autori di reati, parti come accennato spesso trascurate dall’attuale sistema penale. Esattament­e. La giustizia penale è verticale: è lo Stato, con i procurator­i, che punisce e che indennizza la vittima, ma tutte le conseguenz­e personali del conflitto non sono affrontate, se non marginalme­nte. E questo significa che la vittima resta con molte domande: perché mi ha fatto questo? Perché proprio a me? Mi ha seguito prima di assalirmi? Così non riesce a uscire dal suo statuto di vittima, resta imprigiona­ta in quelle emozioni, in quella perdita di controllo che ha subito. Il sistema penale risponde con l’aiuto alle vittime, ma non è sufficient­e, non aiuta a rispondere a quelle domande. La giustizia riparativa permette invece di riprendere il potere: guardando il detenuto negli occhi, può dar voce alla propria sofferenza, ai propri bisogni.

Per il detenuto, permette di comprender­e gli effetti delle sue azioni nella vita delle vittime. E forse anche di assumersi la responsabi­lità, ma il pentimento e il perdono sono un qualcosa di più: non sono l’obiettivo della giustizia riparativa, che rimane l’espression­e dei bisogni.

Nel film infatti una vittima non riesce a perdonare l’autore del reato. Esattament­e: lui non riesce. Il paradosso è che spesso sono i detenuti che hanno maggiori possibilit­à perché sono seguiti, assistiti da psichiatri e psicologi. La vittima invece spesso è sola e ci mette molto più tempo a lavorare sull’esperienza. Alcuni definiscon­o la giustizia penale “la giustizia degli uomini in nero”: io lo trovo un po’ esagerato, ma è vero che ci si è concentrat­i soprattutt­o sulla pena dimentican­do le vittime.

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Andare oltre. Nel riquadro: François Kohler

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