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Le radici di Tralummesc­uro

- di Jacopo Scarinci

Può un libro essere il secondo tempo di un racconto fatto con una canzone 47 anni prima? Se ti chiami Francesco Guccini e ti sei stufato di scrivere brani musicali e dedichi un libro intero – ‘Tralummesc­uro’ (Giunti, 2019) – a storie che non vuoi più mettere in musica, beh, sì. Era il 1972 quando Guccini pubblicò l’album “Radici”, dove la canzone omonima è un atto d’amore nostalgico e malinconic­o a Pàvana, paese che l’ha visto nascere e cui è legato visceralme­nte al punto da dedicargli il romanzo di cui stiamo parlando. “La casa sul confine della sera” e “le voci di altra età” di “Radici” sono descritte con una calma e un mare di ricordi nei quali ti perdi felice, seguendo riga dopo riga una narrazione un po’ in italiano un po’ in dialetto, quel dialetto a cavallo tra bolognese, modenese e toscano che aiuta a capire “l’anima che hai”. E veloce il pensiero corre ai mulini che prima macinavano le castagne per la farina e ora sono diroccati; alle case ora disabitate; alle osterie di una volta dove non ci sono più i vecchi. Al paesaggio che pur essendo sempre quello, è totalmente cambiato. Perché l’uomo è natura, e l’uomo a Pàvana non c’è più. Non ci son più gli orti, e non c’è più la tradizione contadina della montagna. Non ci sono più i tortellini solo a Natale, e nemmeno gli scarponi unti di sugna per tenere lontana l’umidità. “Ma che senso esiste in ciò che è nato dentro i muri tuoi?” si chiedeva in “Radici”. La risposta è la malinconia di “Tralummesc­uro”, quel momento della giornata dove la luce lascia spazio alla notte, dove la vita di prima si discosta ammettendo la sconfitta davanti al progresso e fa avanzare le tenebre dei talk show televisivi al posto delle chiacchier­e nei bar, del negozietto che si è arreso ai supermerca­ti, degli anziani morti e finiti nel Vignale (il Paradiso) che guardano in giù e non si vedono sostituiti. Perché il paese, la valle, la montagna appenninic­a sono svuotati. Perché i tetti delle case non fumano più. Guccini racconta un mondo che non c’è più, senza passare per il santone che mai ha voluto essere. Ma rimanendo quello che è: un uomo innamorato della sua terra, dei suoi ricordi, delle sue malinconie. E leggendo questo libro, perla rara di poesia fatta a racconto, provi quel “grande senso di dolcezza” con cui, 47 anni fa, Francesco Guccini da Pàvana ha spiegato l’emozione della memoria: “Parole troppo grandi per un uomo”.

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L’anima che hai

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