La lingua dell’immagine
Si è chiusa la 38a edizione delle Giornate del cinema muto di Pordenone Non c’è un’immagine in movimento oggi che non sia già stata vista in quel periodo ‘muto’, dai grandi Chaplin e Hitchcock a tesori dimenticati
Il merito delle Giornate del cinema muto, la cui trentottesima edizione è appena terminata a Pordenone, è quello di aprire le pagine della storia del cinema, anche come spettacolo commerciale, per rioffrirle a un pubblico nuovo, quello che oggi vive di Sky, Netflix, e vari intrattenimenti televisivi, e far scoprire come le odierne novità altro non siano che minestre stracotte e insapori di quel periodo malamente indicato come dei “silent film”, quei film nati tra la fine dell’Ottocento e i primi trent’anni del Novecento in cui l’immagine in movimento ha determinato insieme a una grammatica un complessivo linguaggio, diventato universale lingua. Non c’è un’immagine in movimento oggi che non sia già stata vista in quel periodo “muto”.
Pochi anni prima della sua morte, il grande critico cinematografico Tullio Kezich ci confidò: “Non posso scrivere dei film che vedo alle Giornate del cinema muto perché dovrei dire che ho mentito per tutta la vita sui film che ho recensito, erano brutte copie di questi”. Lo stesso in un’edizione del Festival di Cannes in cui si presentò ‘The Birth of a Nation” di Griffith del 1915, e fu proclamato come il più bel film dell’intero festival – nessun’altra opera aveva e ha oggi la stessa filigrana cinematografica. Ecco allora che il pubblico di oggi, alle Giornate, si è spellato le mani applaudendo ‘The Kid’ (Il monello) di Charlie Chaplin, un film del 1921 che, a pochi anni dal suo centesimo compleanno, ha una freschezza drammaturgica, attoriale e fotografica, una tensione emozionale, un’intelligenza umoristica da non temere paragoni nella povertà del panorama odierno. C’è in questa favola un’umanità indelebile, che va dal dramma di una ragazza madre che abbandona il figlio neonato per regalargli un miglior destino, alla carità di uomo che si arrabatta per vivere, ma che ha la decenza e la dignità di chi accetta il prossimo in difficoltà, abbandonato, e questo in un mondo incurante dell’onore in nome della miopia delle istituzioni e dell’ingordigia del privato. Un film a suo modo politico, che senza mai abbandonare la profonda poesia, regala il piacere di poter essere umani.
Ma non basta, si resta sconvolti dalla maestria di un Alfred Hitchcock che nel 1927 con ‘The Lodger: A Story of the London fog’ pone il canone definitivo del film noir: tutti i polizieschi e i gialli fatti dopo infatti hanno un archetipo in questo film che si avvale di un attore artista qual è il musicista Ivor Novello nella parte ambigua di un inquilino sospettato di essere un serial killer. La regia è sontuosa nel suo celebrare la bellezza dell’immagine in movimento. È in questo periodo che nascono i serial che oggi spopolano: alle Giornate si è visto ‘The Great Gamble’, un serial di avventura della Pathé, quindici puntate sviluppate dal 1918 al 1922 e vendute anche in Europa – in Italia arrivò nel 1921 come “Il gran giuoco”, in parte censurato e poi ancora proiettato nel 1923. Resta poi il senso documentario della manifestazione, fondamentale per formare un magazzino della memoria indispensabile. È questo il caso di un film come il sovietico ‘Oblomok Imperii’ (Un frammento d’impero) di Fridrich Ermler del 1929, un’opera di straordinaria intensità che mostra la realtà di un Paese che ancora vive la provvisorietà di una rivoluzione che tutto ha cambiato, che prova a costruire un mondo nuovo scontrandosi sul senso da dare a quel mondo. Forse uno dei film più censurati della storia del cinema, fin dall’inizio perché non era ritenuto adatto alle masse, finalmente qui in una copia integra, si mostra come monumento a un ideale perduto. Verrà il sonoro e l’idea di un cinema capace di parlare solo con le immagini, in un linguaggio puro e inimitabile, svanirà lasciando spazio solo a montagne di brutte copie.