Una commedia che diventa farsa
Andata in scena la prima volta durante il carnevale veneziano del 1741, ‘La Bancarotta’ non è certo la più celebre delle commedie di Carlo Goldoni. Per gli storici del teatro è tuttavia importante perché segnò il primo passo verso quella “riforma goldoniana” che di lì a poco farà dimenticare le maschere della vecchia Commedia dell’Arte. Quella vista al Lac nelle scorse serate è invece la versione rielaborata dal poliedrico Vitaliano Trevisan, il quale adatta il testo al linguaggio odierno e apporta altre sostanziali modifiche. Dal ’700 veneziano passiamo all’italico Nord-est dei nostri giorni; scompare qualche figura secondaria, sostituita da un Don Marzio che ricorda l’omonimo, losco e torbido partenopeo della ‘Bottega del caffè’; la moglie del protagonista Pantaleone de’ Bisognosi diventa un’avida e dissoluta signora dell’Est, stavolta europeo, e non manca qualche accenno all’esercito di stranieri che hanno nel frattempo invaso l’Italia.
Il vizio del gioco e la passione per le donnine che portano alla primigenia bancarotta goldoniana sono sostituiti dall’abuso di cocaina. Purtroppo per noi, Trevisan aggiunge pure due logorroici sarti gay (evidente il rimando a Dolce&Gabbana), entrambi con moine e sculettamenti da Filodrammatiche di paese anni ’50 – detto con tutto il rispetto per queste meritevolissime istituzioni. È il punto più basso di uno spettacolo che non convince per una serie di ragioni: la troupe diretta da Serena Sinigaglia sceglie un registro più da farsa che non da commedia; ci sono lunghe scene dedicate a digressioni anodine (sarà migliore il tabacco inglese o quello olandese? Può un napoletano fare a meno della mozzarella di bufala casertana?) che poco c’entrano con la trama, così come l’insistita citazione shakespeariana dall’Amleto (“Ah, se questa mia troppo solida carne potesse sciogliersi in rugiada”…). Soprattutto scompare quella decisa “critica sociale” che Goldoni propone attraverso “un profondo viaggio nella miseria umana”.
Sommerso dai debiti e logorato dalla battaglia col figlio ex tossico e con la moglie civettuola amante del lusso, il Pantaleone di Natalino Balasso è meno funambolico e istrionico di quanto ci si potesse attendere, nonostante l’abuso di “neve”; più incisiva la prova di Marta Dalla Via (ma uno pseudonimo… no?). Di notevole rilievo l’originalissima scenografia di Paola di Francesco, sbilenca nel senso buono del termine: è inclinata di parecchi gradi la grigia facciata d’un palazzo che ha visto tempi migliori. Il portone è in realtà una botola, mentre i nove attori, chiamati a dar prova d’equilibrismo, appaiono e scompaiono dalle finestre.