‘Sento una resistenza di fondo’
Atteso per oggi il rapporto sul plurilinguismo nell’amministrazione federale. Critico Marco Romano
Come sta l’italiano nella Berna federale? A colloquio con il consigliere nazionale del Ppd e copresidente dell’intergruppo parlamentare ‘italianità’
Marco Romano, nei primi tre anni della passata legislatura, l’1% delle prese di parola al Nazionale sono state fatte in italiano. Nel 2019, anno della presidente Marina Carobbio, siamo al 2,5%. Cosa succederà nel 2020? Credo che torneremo all’1%. Questo è stato un anno straordinario. Le sedute erano gestite in italiano. E ciò ha spinto alcuni colleghi a prendere la parola nella nostra lingua. D’altro canto, noi ticinesi abbiamo continuato ad essere rigorosissimi, usando sempre l’italiano quando eravamo relatori di una commissione o parlavamo a nome dei rispettivi gruppi. È fondamentale che noi italofoni ci esprimiamo nella lingua madre. Bisogna far capire che non è nulla di straordinario sentir parlare italiano al Nazionale.
E dal 2020?
Nel 2020 le sedute saranno gestite in francese, quindi meno tedescofoni e francofoni si esprimeranno in italiano. Cercheremo per quanto possibile di stimolare i colleghi a farlo, ma non sarà facile. Il Parlamento è stato rinnovato per un terzo, non sappiamo ancora quanti dei ‘nuovi’ parlano italiano. Anche a loro ci rivolgeremo.
In 13 delle nuove commissioni extraparlamentari non siede alcun italofono. Lunedì ha chiesto al Consiglio federale se “bistratta nuovamente la pluralità linguistica”. La risposta del Governo l’ha soddisfatta? Assolutamente no. Dopo tutto quel che è stato fatto in questi anni, dopo l’elezione di Ignazio Cassis in Consiglio federale, dopo che i segretari generali dei vari dipartimenti hanno ribadito l’attenzione verso il tema, avere commissioni extraparlamentari senza italofoni è un fallimento del sistema. Per questo rilancio la questione con un’interpellanza depositata proprio oggi [ieri per chi legge, ndr].
Il Consiglio federale se ne “rammarica”, ma a sua discolpa dice che in Romandia e nella Svizzera italiana “è talvolta molto difficile, se non impossibile, trovare gli esperti di cui si necessita”. Non ha ragione?
Mi sembra una scusa. Sappiamo bene che sono i presidenti e i segretariati delle varie commissioni, oltre che i segretariati generali dei dipartimenti, a cercare i candidati. Tendenzialmente vi è una cooptazione: il partente suggerisce il suo successore. Qui a mio avviso non si fa lo sforzo necessario per cercare esperti di cui anche la Svizzera italiana dispone. Sappiamo di candidature provenienti dalla nostra regione che vengono messe sul tavolo e poi scartate con scuse di vario genere. La Berna federale e i cantoni circostanti la fanno da padrone in quest’ambito.
Consiglio nazionale, commissioni extra-parlamentari: vede anche altrove la necessità di agire?
Segnali positivi giungono dal Dipartimento federale degli affari esteri. Funzionari ai piani medio-bassi mi dicono che l’italiano, da quando è arrivato Ignazio Cassis, è in auge: il suo utilizzo ora viene quasi richiesto. Vi sono però ancora dipartimenti – come quelli delle finanze di Ueli Maurer e dell’economia di Guy Parmelin – dove l’italiano resta marginale, fatica a farsi strada.
È atteso per oggi il rapporto sul plurilinguismo della Delegata federale Nicoletta Mariolini. Cosa s’aspetta? Mi secca il ritardo con cui il rapporto, atteso per quest’estate, viene presentato. La sensazione è che alla Delegata sia stata complicata la vita nella sua stesura. E le prime indicazioni ricevute non mi tranquillizzano. Sembra prevalga una forza centrifuga, alimentata dai segretari generali: ogni dipartimento faccia per sé. Percepisco una resistenza di fondo da parte della componente tedescofona a riconoscere il valore di un’amministrazione federale plurilingue. Non a caso ai suoi vertici il numero di italofoni è diminuito. E sappiamo anche che i neolaureati di lingua madre italiana che si candidano per uno stage, in certi dipartimenti vengono scartati a priori.