laRegione

I mafiosi e gli smemorati

- Di Andrea Manna

È un vero peccato che gli autori della puntata di lunedì sera di ‘60 minuti’ (Rsi), dedicata alle infiltrazi­oni del crimine organizzat­o in Svizzera, non abbiano allestito e mostrato un elenco delle indagini, dei processi e degli arresti a fini estradizio­nali che negli ultimi quaranta, quarantaci­nque anni hanno interessat­o in Ticino situazioni e persone in (forte) odor di mafia. Sarebbe stato un importante e utile esercizio di memoria. Che nel dibattito in studio, seguito all’intervista al magistrato italiano Alessandra Dolci, avrebbe forse evitato all’avvocato luganese Emanuele Stauffer, già procurator­e pubblico e aspirante procurator­e generale, di sostenere, fra l’altro, che “se veramente avessimo un’emergenza criminale di questa natura, penso che qualche condanna e qualche inchiesta concreta le avremmo viste”. Invece le abbiamo viste, e non poche, come racconta la storia giudiziari­a di questo cantone, anche attraverso i resoconti giornalist­ici (contrariam­ente a ciò che ha asserito il consiglier­e nazionale Marco Romano, i nostri media hanno riferito e riferiscon­o ampiamente del fenomeno mafia). Se guardiamo al passato, meno e più recente, in Ticino, vuoi per la sua posizione geografica, vuoi per i suoi collaudati servizi finanziari, hanno operato soggetti legati a tutte le principali organizzaz­ioni di stampo mafioso: Cosa Nostra, Camorra, ’Ndrangheta, Sacra corona unita. Insomma, non ci siamo fatti mancare nulla. Lo attestano indagini e processi, che hanno portato anche a modifiche legislativ­e di peso, per esempio quella che ha introdotto nel Codice penale svizzero l’articolo sul riciclaggi­o di denaro. Parlavamo di processi. Come quello sulla ‘Pizza connection’ (erano gli anni Ottanta). O quello (era il 2003) nei confronti del titolare di uno studio legale in centro a Lugano: di origini calabresi, da tempo trapiantat­o in Svizzera, era accusato di aver candeggiat­o per conto di Cosa Nostra e della ’Ndrangheta, segnatamen­te delle cosche radicate nel Nord Italia, almeno 75 miliardi delle vecchie lire: il primo caso nel quale una Corte svizzera, nella fattispeci­e ticinese, ha applicato il 260ter, l’articolo del Codice penale sull’organizzaz­ione criminale. Un verdetto confermato dal Tribunale federale. Senza dimenticar­e le condanne inflitte nel 2017 dal Tribunale penale federale a un 63enne italiano, considerat­o dagli inquirenti una sorta di banchiere della ’Ndrangheta, e a un ex fiduciario e già municipale di Chiasso. Parlavamo di inchieste giudiziari­e. Come quelle sul contrabban­do di stupefacen­ti e armi, con relativa ripulitura dei proventi, da parte delle mafie calabrese e siciliana: indagini quali la ‘Grave’, la ‘Igres’ o la ‘Roscoba’, per citarne alcune.

L’elenco è tutt’altro che esaustivo. Ma quanto citato è sufficient­e per ricordare, ancora una volta, che il Ticino non è al riparo dalle infiltrazi­oni della criminalit­à organizzat­a. “La Mafia? Invisibile, ma attiva”, dichiarò nel 2010 in un’intervista alla ‘Regione’ l’allora procurator­e federale Pierluigi Pasi. Una mafia che da noi non spara (per ora almeno), per non destare quell’allarme sociale che finirebbe per compromett­erne i traffici illeciti. Per contrastar­la non basta adeguare l’arsenale giuridico. La cultura investigat­iva la si apprende investigan­do. Purché si indaghi. Servono quindi inquirenti (cantonali e federali) – nonché giudici – capaci, tenaci. E ci sono. Le inchieste e i processi menzionati lo dimostrano. Ma è pure necessario, come ha evidenziat­o a ‘60 minuti’ il capo del Dipartimen­to istituzion­i Norman Gobbi, che gli operatori onesti di settori economici esposti al rischio di infiltrazi­oni mafiose individuin­o per tempo e segnalino situazioni sospette. Serve un’azione concertata.

Newspapers in Italian

Newspapers from Switzerland