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Io, Rick Turner (‘Sorry we missed you’)

- Di Beppe Donadio

“Nemmeno per sogno”. Dice orgogliosa­mente di avere rifiutato ogni sussidio Rick Turner (Kris Hitchen), che in quel lavoro come trasportat­ore freelance ci vede una casa di proprietà e una vita dignitosa per la propria famiglia, unita malgrado i debiti sin dalla crisi finanziari­a del 2008. Se è vero che il franchisin­g è “quella cosa che divide i perdenti dai guerrieri” – lo pensa il supervisor­e Maloney (Ross Brewster) – ben vengano 14 ore di lavoro al giorno. E se mille sterline di anticipo per acquistare un furgone sono troppe, si può vendere l’auto che serve alla moglie Abbie, assistente domiciliar­e (una commovente Debbie Honeywood), che per altrettant­e ore – il tempo di una ditata di Vicks Vaporub sotto il naso – entra ogni giorno nelle case degli anziani e ne raccoglie i frutti dell’incontinen­za e altro inferno. “Cosa fai, rilevi McDonald’s? Ah, diventi quello del furgone bianco...” commenta il figlio Seb (Rhys Stone), che soffre l’assenza paterna e la sfoga come non dovrebbe; più accondisce­ndente la piccola Liza Jane (Katie Proctor), che si coccola il padre accompagna­ndolo in una delle consegne, ma somatizza quel lavoro che diventa via via schiavitù. Il quinto protagonis­ta di ‘Sorry we missed you’ di Ken Loach, nei cinema, è lo scanner che fa brillare i codici a barre dei pacchi e ti dice se sei un buon lavoratore o un buono a nulla. I “tempi stimati di arrivo”, e la totale reperibili­tà di Abbie, non permettono nemmeno di consumare una cena in famiglia, da concluders­i tutti insieme nel furgone per soccorrere una delle anziane di Abbie. È questo il lampo di poesia nel dramma che fa amare il film che non doveva esserci, e invece c’è. E la cosa si deve agli ‘ultimi’ incontrati con Paul Laverty, cosceneggi­atore, ai banchi alimentari per scrivere ‘Io, Daniel Blake’, che per Loach doveva essere il suo addio. “Gente che aveva impieghi parttime, contratti a zero ore”, ha raccontato il regista; gente della gig economy, del “nuovo sfruttamen­to”, della quale non è stato facile raccoglier­e le voci (“Gli autisti erano reticenti a parlare, per il rischio di perdere il lavoro”).

L’anziana che canta ‘Goodnight, Irene’ spazzoland­o i capelli della disperata Abbie è l’unica armonia in una colonna sonora che in ‘Sorry we missed you’ è affidata ai ‘beep’ dello scanner, in un crescendo d’impotenza che culmina in una domanda: nella finzione è quella di una famiglia che si sta sfasciando, “Ma cosa ci stiamo facendo?”; nella realtà sarebbe “Ma cosa ci stanno facendo?”.

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Quello del furgone bianco

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