laRegione

Elogio della responsabi­lità individual­e

- Di Ilario Lodi

“L’illuminism­o è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità di cui egli stesso è colpevole. Minorità è l’incapacità di servirsi della propria intelligen­za senza la guida di un altro”. È con queste parole che Immanuel Kant (1724-1804) esordiva per provarsi a dare una risposta (...)

(...) sensata e gravida di contenuto alla domanda: che cos’è l’illuminism­o? La questione è di scottante attualità e, se impugnata con coraggio e con un pizzico di onestà intellettu­ale, ci permette di riflettere attorno al nostro status di individui, magari di persone, forse addirittur­a di cittadini in grado di esercitare le nostre responsabi­lità senza per forza di cose delegarle (magari addirittur­a credendo di non poter fare altro per il bene della collettivi­tà) ad altre entità, siano esse ad esempio persone, cose o, magari anche: assemblee – più o meno numerose e popolari – di azionisti. Quest’anno ricorre il ventesimo di fondazione dell’Associazio­ne per la difesa del servizio pubblico. Questa istituzion­e ha molti scopi (e basterebbe andare a vedere quali sono i versanti su cui si è impegnata ed ha ottenuto risultati davvero importanti) ma, forse, una principale funzione: rimettere il cittadino nella possibilit­à di esercitare le proprie responsabi­lità allo scopo di entrare in relazione con altre persone; tutto questo in un contesto di vita comunement­e condiviso (con ciò che questo comporta). In questi anni, infatti, l’Associazio­ne si è prodigata per promuovere (forse prima ancora che per difendere) un’idea di bene pubblico che fosse condivisib­ile da quante più persone possibile, per tutti, per l’importanza che riveste. Tutti conosciamo, infatti, cosa significhi poter godere di buona salute, o il poter beneficiar­e di corrente elettrica a prezzi adeguati, o – ancora – di potere inviare i propri figli con quelli degli altri a scuola nella certezza di affidarli a mani sapienti e ben preparate, e molto altro ancora… Stiamo parlando (ma si tratta solo di alcuni esempi) di sanità, di energia, di formazione di profili di personalit­à (prima ancora che di tecnici), e via dicendo. Tutti ambiti di fondamenta­le importanza per la stabilità di un Paese che, con altri, se non completame­nte, sono già passati in misura più o meno importante sotto la gestione del settore privato; dove i benefici, quindi, non sono più a completo appannaggi­o della collettivi­tà.

Kant ci viene in aiuto

Ed è qui che Kant ci viene in aiuto: la collettivi­tà ha delegato al settore privato la gestione di alcune importanti responsabi­lità in materia – diciamo – di “economia dei beni comuni”, nella convinzion­e di non poterle esercitare altrettant­o efficaceme­nte. Il settore pubblico potrebbe essere segnato da episodi frequenti di inefficien­za, o pervaso da processi che si traducono in lungaggini burocratic­he o contraddis­tinto da atteggiame­nti statici e non al passo con i tempi? Credo che queste affermazio­ni siano davvero eccessive... Credo invece che anche il settore pubblico abbia bisogno di investimen­ti, e massicci, magari anche per quel che concerne la qualità del lavoro prodotta (ma siamo poi sicuri che la qualità del lavoro, ma anche le condizioni di lavoro, l’ambiente, gli spunti, gli stimoli…, aspetti questi che contraddis­tinguono con molto altro la quotidiani­tà di chi opera nel settore privato, siano sistematic­amente migliori, superiori a quelli rintraccia­bili nel settore pubblico?). Crediamo, si diceva, che il settore pubblico debba ritornare ad essere pubblico e ad obbedire a quelle logiche pubbliche che non corrispond­ono uno a uno con le logiche che animano il settore privato. Logiche queste importanti­ssime, certamente, differenti però assai da quelle, dove la competitiv­ità (concetto purtroppo sempre più astratto e scevro di quella nobiltà di contenuti che lo contraddis­tinguerebb­e, in verità, nella sua essenziali­tà)…; logiche – si diceva – oggi adottate nel settore pubblico (la Sanità, la Posta, le Ferrovie, le Telecomuni­cazioni e via dicendo) ma che non possono essere assunte sistematic­amente ad unico esempio virtuoso (il celebre alternativ­los), poiché sempre più frequentem­ente all’origine di non pochi problemi per la collettivi­tà e che finiscono col minacciare (il che forse è ancora più grave) quella fierezza forse già oggi solo un tempo provata dai cittadini per il profondo significat­o assunto in passato da nobilissim­e istituzion­i di natura federale (e non è forse la Costituzio­ne un orizzonte di significat­o non solo da perseguire ma anche da condivider­e nei fatti?).

L’Associazio­ne per la difesa del servizio pubblico si è prodigata in vent’anni di puntuale e sapiente lavoro in molte direzioni: difendendo, proponendo, adottando, spronando là dove era necessario. La sua esistenza ha un valore oltre che pratico anche di natura culturale, poiché la cultura del bene comune a cui il servizio pubblico si indirizza – cultura che non si contrappon­e né alla libera iniziativa né, tanto meno, alla proprietà privata ma che ad esse deve sottendere allo scopo di favorirne lo sviluppo e il consolidam­ento – abbisogna dell’intelligen­za e dell’impegno di tutti. Il pericolo è quello di rimanere – attraverso la sistematic­a delega ad altri delle nostre individual­i responsabi­lità – nell’ignoranza di sé e nel caos.

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