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Oltre la cortina di fumo, il tennis

- Di Marzio Mellini

‘The show must go on’. Lo spettacolo deve continuare. Ma volete che gli Australian Open, un torneo con un montepremi di 50 milioni di dollari, possa fermarsi di fronte alla pessima qualità dell’aria di Melbourne, all’emergenza che sta mettendo in ginocchio l’Australia, alla violenza delle immagini che stanno facendo il giro del mondo e che mal si sposano con una manifestaz­ione sportiva globalment­e nota come ‘happy slam’, che quest’anno di felice ha davvero poco?

Il buon senso, e un maggiore riguardo per la salute degli atleti, sarebbero argomenti piuttosto validi a favore di un rinvio, o di un annullamen­to. Il peso degli sponsor che pretendono lo spettacolo per cui hanno pagato, gli investimen­ti fatti, i diritti televisivi milionari, un calendario nel quale sarebbe impossibil­e ricollocar­e un evento che si snoda lungo due settimane, declassa il suddetto buon senso a consideraz­ione giusta, sì, ma un tantino retorica. Un’obiezione legittima, ma dal valore non sufficient­e a impedire che gli Australian Open vadano in scena, benché la loro visione sia offuscata. Dalle polemiche, oltre che dal fumo.

Tant’è, la pioggia ha fatto un po’ di pulizia. Il suo intervento è stato provvidenz­iale, ma non definitivo. Anzi parziale. Dall’effetto benefico temporaneo, praticamen­te già scaduto.

Il problema resta, e non lo si risolve certo con le varie iniziative benefiche di cui i tennisti si sono fatti promotori. Che tre strutture siano coperte giova alla causa di un torneo partito un po’ a singhiozzo – e con fastidiosi colpi di tosse – con i match di qualificaz­ione che hanno evidenziat­o quanto labile sia il confine tra la regolare disputa di partite di tennis di uno dei quattro tornei più ricchi e prestigios­i del circuito, e lo sbaraglio mediatico al quale i tennisti vengono mandati, vittime di condizioni di lavoro inadeguate a causa della qualità dell’aria deteriorat­a dal fumo. Dai, forza, si gioca. Tre campi sono coperti. Se l’allarme risuona, tutti al riparo, che sarà mai.

C’è Federer, a Melbourne senza aver giocato prima una sola partita, per la prima volta da sette anni. O meglio, di incontri ne ha disputati, a scopo di lucro e a fin di bene, nella sua tournée sudamerica­na di novembre, e poi in Cina, a fine anno. Ma quelli non contano. Divertono, smuovono milioni a palate, ma non giovano alla causa sportiva del 38enne basilese. Né hanno giovato le polemiche innescate dai movimenti ambientali­sti, alle quali ha dovuto reagire, togliendo spazio a dritti e rovesci. Vincitore nel 2017 e 2018, favorito per tradizione, è pericolosa­mente a digiuno di agonismo da molte settimane, ma è pur sempre Federer. E questo, spesso, è bastato a spazzare via le perplessit­à della vigilia.

C’è Wawrinka, che a Melbourne vinse il primo dei suoi tre Slam. Nel 2020 ha fissato l’anno del ritorno ai massimi livelli, di forma e, si spera, anche di risultati. Due quarti di finale, a Parigi e New York, nonché il ritorno nel Top-15 mondiale, dicono che è capace di un acuto dei suoi. Bellissima immagine, quell’indice alla tempia: speriamo di rivederla. Ci sono Rafael Nadal (aspirante al 20esimo Slam, come Federer) e Novak Djokovic (sette volte vincitore a Melbourne), numero uno e due al mondo, i favoriti che se le sono già date di santa ragione all’Atp Cup, servendo agli appassiona­ti un antipasto di quanto – Roger permettend­o, terzo incomodo di extralusso – dovrebbe accadere lungo una stagione che sembra loro promessa, come quelle precedenti. Giovani rampanti permettend­o, naturalmen­te.

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