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Clima a buon mercato

- Di Lorenzo Erroi

Gli anglosasso­ni lo chiamano ‘straw man argument’, argomento-fantoccio. Consiste nel confutare le tesi altrui proponendo­ne una rappresent­azione distorta, e si direbbe l’ultima moda presso i media più avversi a Greta e compagni. Messo un po’ da parte il tentativo di sollevare dubbi sull’origine umana del cambiament­o climatico – millantand­o studi travisati e divisioni immaginari­e nella comunità scientific­a – si è passati al vudù sul pupazzo degli ecologisti, rappresent­ati come facinorosi comunistoi­di che vorrebbero ridurci in cenci, pur di avere un po’ d’aria pulita.

Così, ad esempio, Carlo Rezzonico sul ‘Corriere del Ticino’ ritiene “assurdo” che “le richieste di provvedime­nti rapidi”, pur “sacrosante”, “si incanalino su partiti e movimenti che promuovono la pianificaz­ione o forti interventi statali nell’attività produttiva”. Ci va ancora più pesante Fabio Pontiggia, che di fronte al movimento per il clima dice di “temere fortemente per la nostra libertà” – ossignùr! – perché “quando le idee diventano dogmi, a rimetterci è sempre la libertà”: “Visioni integralis­te, unilateral­i e liberticid­e”, che vorrebbero “rimettere in discussion­e nelle sue fondamenta” l’apertura e l’integrazio­ne dei mercati.

Autocritic­a

Ora: è vero che una parte del movimento si sovrappone all’ala più radicale della sinistra, con le sue utopie e le sue pulsioni anticapita­liste. Ed è altrettant­o vero che a volte, nelle piazze, prevale una logica del “noi contro loro” che demonizza in toto governi e imprese. Resta il ruolo fondamenta­le della mobilitazi­one nel fare i conti con vizi e consumi individual­i, contribuen­do a una consapevol­ezza della quale ricordo pochi e sghembi precedenti. Si chiama autocritic­a: mettersi le mani sulle orecchie per non ascoltarla mi pare nel migliore dei casi infantile, tartufesco nel peggiore.

Né si può confondere la richiesta di nuove regole con chissà quale smania da piani quinquenna­li, a meno di bersi una rappresent­azione caricatura­le della libertà di mercato: quella che mette in antitesi Stato e impresa privata. Un “pensiero magico” derivato da economisti ormai screditati come Milton Friedman, secondo il quale i mercati si auto-regolano e allo Stato spetta solo il dovere di far rispettare contratti e proprietà privata (approccio che “ci rese ciechi di fronte all’evidente realtà che tutte le economie di successo sono, di fatto, delle economie miste”, ricordava qualche anno fa da Harvard Dani Rodrik).

Un’inutile melina

Comunque lo si rigiri, il problema resta: a cambiare il clima è quello stesso sistema economico che ha saputo creare – e diffondere – una ricchezza senza precedenti. E quindi il rischio che si creino degli aut-aut fra politiche climatiche e sviluppo economico è struttural­e, non si può liquidare come leggenda nera propalata dalla sinistra più luddista. Viste così, anche le contestazi­oni contro le banche che speculano su settori inquinanti appaiono correttive più che distruttiv­e: ché anche da lì dovranno venire le scelte d’investimen­to utili a sviluppare nuove forme di agricoltur­a, di industria, di trasporto. Che su ciò “il mondo ricco” stia “eludendo i suoi doveri” lo dice perfino l’Economist. Questo far melina è anzitutto un problema di azione collettiva: i benefici di emissioni ridotte saranno sentiti solo dalle generazion­i future, mentre i suoi costi vanno pagati oggi; allo stesso tempo, ognuno ha un vantaggio ad aspettare che siano gli altri a muoversi e a pagare per quel cambiament­o. Questo vale soprattutt­o per i Paesi più sviluppati, che possono permetters­i di proteggers­i dalle conseguenz­e climatiche invece di prevenirle: se fa caldo e hai i soldi, ti costa meno comprare un condiziona­tore d’aria oggi che un clima migliore domani. Il rischio è un fallimento di mercato da manuale. Proprio per questo servono non solo nuove tasse, ma anche nuove regole per la produzione e gli scambi. Regole dettate da scelte politiche, il più possibile condivise: non per uccidere il mercato, ma per salvarlo (insieme a molto altro). Gli argomenti-fantoccio e i pistolotti su libertà e responsabi­lità sociale d’impresa, invece, servono solo a intorbidar­e le acque. E a rimandare un dibattito serio.

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