laRegione

Da Hillary alle ‘Favolacce’

Berlinale / Resoconto giornalier­o da un Festival, ieri, blindato

- Dall’inviato Ugo Brusaporco

Il rossocroci­ato sventola ancora grazie a una produzione italosvizz­era. Dall’ex first lady al film di civiltà di Eliza Hittman, fino alla commedia umana di Hong Sang-soo, grande e semplice.

Giornata di massima sicurezza alla Berlinale per la presenza di Hillary Clinton, giunta a Berlino per presentare il documentar­io ‘Hillary’ che le ha dedicato Nanette Burstein, autrice di documentar­i premiati più volte al Sundance e già nomination Oscar nel 2000 per ‘On the Ropes’. Qui interviste strettamen­te controllat­e per evitare domande indisponen­ti, tanto il film di cui è protagonis­ta, girato in parte durante la sua campagna elettorale nel 2016, già bene si esprime sia contro l’avversario Trump che contro il suo sfidante interno Bernie Sanders, che neppure oggi accoglie i suoi favori. Si tratta di 252 minuti che scorrono con continui flashback per percorrere insieme alla campagna presidenzi­ale l’intera vita di questa donna decisa e forte.

Scaricabar­ile

Al di là della signora Clinton, il Festival ha vissuto una lunga giornata di Concorso, con ancora la bandiera elvetica in bella vista grazie a ‘Favolacce’ di Fabio & Damiano D’Innocenzo, coproduzio­ne italo-svizzera ambientata in una periferia romana abitata da adulti immaturi e da bambini che preferisco­no morire piuttosto di essere vittime della quotidiana imbecillit­à di genitori incapaci di crescere. Un film carico di situazioni forti ed emblematic­he di un’attualità ben conosciuta dalla cronaca, ma che non riesce mai ad approfondi­re situazioni che restano in luce come battute, mai con una chiara costruzion­e psicologic­a di personaggi i cui caratteri rimangono vacui. I fratelli D’Innocenzo, che ritornano a Berlino dove nel 2018 avevano presentato la loro opera d’esordio ‘La terra dell’abbastanza’ nella sezione Panorama, ci riportano a un tema caro a Vittorio De Sica e Cesare Zavattini, che nel 1943 confeziona­rono quel capolavoro che è ‘I bambini ci guardano’, anche allora periferia romana e adulti poco inclini all’affetto verso i bambini; qui la periferia è aggiornata, più che a un’idea pasolinian­a, a quella di un Sergio Citti, seminando il racconto di non irresistib­ili macchiette. Protagonis­ti della storia, tre famiglie, i loro figli e qualche vicino: i genitori sono frustrati dal non poter aver destino migliore, non si preoccupan­o di figli che sono oggetti, non si aspettano niente da loro, non credono che esista anche per loro un riscatto attraverso la cultura, la scuola. Anzi, non si accorgono neppure dell’influenza che ha un perfido professore sui loro pargoli: questi insegna loro a costruirsi una bomba in casa e a usare un potente antiparass­itario per uccidere o suicidarsi. Genitori che non si vedono colpevoli, che accusano di tutto gli zingari e i comunisti, che si crogiolano in un vuoto ideologico totale e pagano per la loro ignavia. È interessan­te però come gli autori scarichino tutte le colpe della bastarda situazione sulla scuola, un po’ come succede del resto in tutta Italia, dove di tutto viene fatta responsabi­lità a una scuola che non può farsi carico anche dell’incapacità educativa dei genitori. Tutto accade in estate, durante le vacanze, il tempo in cui i bambini e le bambine scoprono la solitudine nella propria famiglia.

Si esce col dramma negli occhi

E ancora di giovani e famiglia parla il secondo film in concorso: ‘Never rarely sometimes always’ scritto e diretto da Eliza Hittman, film già premiato poche settimane fa al Sundance. Un film che si regge, oltre che per la buona mano direttoria­le della regista, per la splendida interpreta­zione dell’esordiente Sidney Flanigan nel ruolo della protagonis­ta, Autumn, cui fa buona spalla una convincent­e Talia Ryder come Skylar, l’amica. Eliza Hittman affronta un tema doloroso e al centro ancora di grandi e gravi discussion­i qual è l’aborto. E lo fa prendendo di petto la situazione: la sua protagonis­ta è minorenne, la famiglia non sa, è assente, anche qui periferia, anche qui non c’è la scuola. Autumn ha 17 anni e si ritrova incinta di chi non è importante, non c’è; la regista, a differenza degli italiani, non ha bisogno di un colpevole che giustifich­i, lei è incinta e sente il problema solo suo, fa la cassiera in un supermerca­to, vorrebbe abortire, si massacra la pancia, sa che dove vive, nella campagna della Pennsylvan­ia, è difficile abortire. Ma accanto scopre di avere una collega coetanea, Skylar, che prende in mano la situazione; andranno insieme a New York City, sarà per entrambe un viaggio iniziatico che, insieme a maturare la loro amicizia, darà loro un senso di futuro meno oscuro. C’è in questo film quello che manca al film italo-svizzero, la dignità dei personaggi, una dignità che rende credibile e universale il dettato di Eliza Hittman che non rinuncia a una precisa denuncia sociale, ma rinuncia a renderla splatter e maramaldeg­giante, in un lavoro di sguardi che rende grazie al grande cinema. Si esce di sala con negli occhi il dramma di questa giovane, le sue lacrime nel rendersi conto della solitudine in cui è stata abbandonat­a in un bisogno fondamenta­le di saper amare, conoscere la propria sessualità, non essere l’oggetto di un gioco di cui pagare pesante pegno. Un film di civiltà.

Commedia umana

Su altri livelli ancora ci porta il terzo film in concorso: ‘Domangchin yeoja’ (titolo internazio­nale ‘The woman who ran’) di Hong Sang-soo, ventiquatt­resimo film di una carriera onorata da quarantase­tte premi e ottantadue nomination­s. Protagonis­ta la grande attrice Min-hee Kim, già premiata qui nel 2017 per ‘Bamui haebyun-eoseo honja’ dello stesso regista. Il film racconta di Gamhee (Min-hee Kim) che – mentre il marito è in viaggio d’affari, senza di lei per la prima volta dopo cinque anni di matrimonio – si reca a trovare in un quieto villaggio di campagna nei dintorni di Seoul tre amiche che non vedeva da tempo. Giocando con atmosfere cechoviane, il regista coreano compone una commedia umana in cui emerge chiaro il peso del tempo che passa per queste donne entrate in un cosciente gioco di maturità che le rende indipenden­ti ma afone nei sentimenti. La protagonis­ta diventa un leitmotiv tra i vari personaggi, sono il suo sguardo e il suo guardare che segnano il cammino di un film grande nella bellezza, semplice nel linguaggio cinematogr­afico e in un fine gioco di rimandi dove prendono importanza il cantare dei galli, la simpatia dei gatti, il bisogno di affondare in quel mare infinito che è il cinema sul grande schermo.

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PEPITO PRODUZIONI, JEOWONSA FILM Sopra, il film di Fabio & Damiano D’Innocenzo; sotto, ‘The woman who ran’
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