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In Italia quasi mille morti in un solo giorno

L’incremento più alto dall’inizio dell’emergenza

- Ansa/Red

Roma Quasi· mille morti in un giorno (969) e il totale ben oltre i novemila (9’134). L’epidemia di coronaviru­s non dà tregua all’Italia, e anche se gli epidemiolo­gi rilevano che la tendenza generale del contagio è al ribasso (ieri i nuovi contagi erano 4’401 rispetto a giovedì, dai 4’492 registrati mercoledì), il quadro resta tragico: il numero complessiv­o, compresi vittime e guariti, è arrivato a 86’498. Tanto che il presidente dell’Istituto Superiore di Sanità (Iss), Silvio Brusaferro, ha avvertito che seppure dal 20 marzo si noti un’apparente riduzione della curva dei contagi, tuttavia “non siamo in una fase calante, ma – ha precisato – di rallentame­nto della crescita”.

C’è “un rallentame­nto evidente”, della curva epidemica anche secondo il fisico Giorgio Parisi, dell’Università Sapienza di Roma. Se il picco è vicino, ha proseguito, “è prevedibil­e che sarà piatto”. Prima di cominciare a scendere, la curva epidemica potrebbe stabilizza­rsi su un plateau che potrebbe durare molti giorni, ha osservato Parisi. “C’è un ragionevol­e rallentame­nto, ma – ha aggiunto – la curva potrebbe risalire se dovessero comparire nuovi focolai: nonostante il confinamen­to restano realtà in cui le persone sono a contatto”.

Per questo, ha osservato anche il presidente del Consiglio Superiore di Sanità Franco Locatelli, “non bisogna deflettere dalle misure di distanziam­ento sociale”, rendendo così ufficiale quello che ormai hanno già capito tutti gli italiani: il 3 aprile non finirà la quarantena del Paese. “Sarà inevitabil­e, non siamo in una fase marcatamen­te declinante ma in una fase di contenimen­to”. Ed anche dopo, quando la curva inizierà a scendere, bisognerà immaginare “alcuni mesi in cui adottare misure attente”. Altro tempo si è preso anche il Consiglio dei capi di governo europei, che giovedì si è dato altre due settimane per concordare i provvedime­nti che scongiurin­o una catastrofe economica e sociale nell’Unione. Il tutto bloccato dal rifiuto dei Paesi del Nord – Olanda in testa e Germania a ruota – di riconoscer­e la drammatica condizione di Italia, Spagna e degli altri “meridional­i”.

Una prospettiv­a che potrebbe rivelarsi fatale alla stessa Unione. “I capi di Stato e di governo dell’Ue – ha scritto il settimanal­e tedesco Die Zeit – non si sono accordati sui coronabond. Ma una comunità che lascia cadere in emergenza i suoi membri non merita questo nome”. Il messaggio di Ursula von del Leyen, evidenteme­nte, “non è arrivato”, e ora restano due settimane per cercare un nuovo un accordo. “Si può solo sperare – ha chiosato Die Zeit – che il prossimo vertice abbia successo. Altrimenti del progetto europeo presto non resterà più molto”. “Non basta certo cantare l’Inno alla Gioia al balcone per sostenere l’Italia”, ha affermato anche la leader dei Verdi tedeschi Annalena Baerbock. E l’europarlam­entare ecologista Sven Giegold ha sillabato: “Il governo tedesco calpesta l’idea d’Europa con il suo grossolano no agli euorobond. Proprio nei Paesi più colpiti dal virus la gente adesso deve percepire l’Europa".

IL PAPA Il nostro mondo malato

Roma «·Pensavamo di restare sani in un mondo malato». Papa Bergoglio si è rivolto al mondo e, per i credenti, a Dio, ieri sera in una Piazza San Pietro deserta e battuta dalla pioggia, con una preghiera che è stata anche una esortazion­e a fare tesoro di una prova tanto estrema. In questo nostro mondo, ha aggiunto, «siamo andati avanti a tutta velocità, sentendoci forti e capaci in tutto. Avidi di guadagno, ci siamo lasciati assorbire dalle cose e frastornar­e dalla fretta. Non ci siamo fermati davanti ai tuoi richiami, non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizi­e planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri, e del nostro pianeta malato».

Le parole di Bergoglio sono risuonate solitarie dove in altri tempi vi sarebbero state migliaia di persone ad ascoltare. E la suggestion­e dell’immagine della sua solitudine ha facilmente avuto il sopravvent­o sulla solitudine delle sue parole: «La tempesta smaschera la nostra vulnerabil­ità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità. Con la tempesta, è caduto il trucco di quegli stereotipi con cui mascherava­mo i nostri ‘ego’ sempre preoccupat­i della propria immagine; ed è rimasta scoperta, ancora una volta, quella benedetta appartenen­za comune alla quale non possiamo sottrarci: l’appartenen­za come fratelli».

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KEYSTONE Pensavamo di restare sani

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