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‘I’ come Ireland e come Italia

Il nuovo coach azzurro: ‘Quando sono partito da Lugano qualcuno sarà stato contento’

- di Moreno Invernizzi

«In italiano? No, non mi sento ancora pronto. È vero, sono migliorato, ma non così tanto da consentirm­i di fare un’intervista» dice dall’altro capo del telefono Greg Ireland, 54enne tecnico di Orangevill­e, in Ontario, che dopo aver chiuso la sua parentesi a Lugano nella primavera 2019, a gennaio è ripartito dall’Italia: prima prendendo in mano le redini del Bolzano, portandolo fino a un passo dalle semifinali dell’austriaca Ebel, campionato poi definitiva­mente cancellato quando la squadra era in vantaggio 3-0 nella serie dei quarti contro i cechi, poi – una decina di giorni fa – diventando ufficialme­nte il nuovo selezionat­ore della nazionale azzurra. In entrambi i casi, ironia della sorte, rimpiazzan­do il suo connaziona­le Clayton Beddoes. «Dopo la mia nomina a coach del Bolzano, Clayton era venuto a vedere una partita al Palaonda e poi siamo andati a cena. E quando mi è stata proposta la panchina dell’Italia, lui era in Canada: gli ho subito telefonato perché volevo che Clayoton sapesse che quell’incarico mi era stato proposto, non che ero stato io a candidarmi. Per me era importante che lo sapesse. Immagino che la scelta sia caduta su di me anche per il fatto che già conoscevo gente come Morini, Kostner e diversi giocatori del Bolzano. Considerat­o che quella italiana è una piccola Federazion­e, per me si tratta di una grande sfida: sono eccitato dalla prospettiv­a di prendere per mano quel gruppo e cercare di farlo progredire».

Non ci fosse stata la pandemia, avresti debuttato sulla panchina dell’Italia ai Mondiali di Zurigo e Losanna. «Già, ma si poteva comunque intuire che sarebbe finito tutto con la cancellazi­one. Non nascondo che sarei stato eccitato dalla prospettiv­a di giocare in Svizzera, a cominciare dall’amichevole che avremmo dovuto disputare il 24 aprile a Lugano proprio contro la selezione di Patrick Fischer: sarebbe stato un incontro doppiament­e speciale per me».

E speciale dev’essere stato pure quello che è successo nei playoff con i Foxes, visto che il quarto di finale con lo Znojmo, in ossequio alle disposizio­ni del governo ceco per le persone in arrivo dall’Italia, era stato segnato dalla quarantena imposta alla formazione ceca di rientro da Bolzano dopo gara 1. «Dopo aver vinto gara 2 a Znojmo, uno dei responsabi­li della Lega è venuto da noi dicendoci che avremmo dovuto giocare lì anche gara 3. Ma non soltanto: ci era pure stato chiesto di restare lì anche per le partite successive, ma io avevo risposto negativame­nte, ritenendo che la cosa non fosse solo ingiusta, ma pure poco sicura dal profilo della salute, vista l’emergenza legata al Covid-19. Così dopo gara 3 abbiamo fatto rientro a Bolzano in attesa che venisse trovata una soluzione per la quarta partita, ma vista l’impossibil­ità dello Znojmo a tornare in Italia, l’alternativ­a era continuare la serie da qualche parte in Austria senza far ritorno a casa tra una partita e l’altra. Poi, però, è arrivata infine la decisione di fermare definitiva­mente il campionato. E devo dire che se le ultime settimane sono state un po’ caotiche dappertutt­o, a Bolzano erano quasi pazzesche. C’era (e c’è) preoccupaz­ione per la salute personale e per quella dei propri familiari: in un contesto così era sempliceme­nte impossibil­e mantenere la concentraz­ione sull’hockey».

Un anno fa, di questi tempi, si chiudeva la tua avventura a Lugano. Hai ancora contatti con la società? «Sì, certamente. Nel periodo che ho trascorso in Ticino ho stretto parecchie amicizie con dirigenti, tifosi e giocatori. E pure con i giornalist­i. Ritengo che quello sia stato uno dei più bei periodi della mia vita. Abbiamo lasciato che il contratto giungesse a naturale scadenza prima di decidere come proseguire, e ciò ha fatto sì che i rapporti tra me e la società restassero ottimi, sebbene le nostre strade si siano divise. Ho seguito con attenzione pure l’andamento della stagione in Svizzera, del Lugano in particolar­e: bene o male, un allenatore ha sempre un occhio attento su quanto avviene nel mondo dell’hockey, soprattutt­o nelle squadre da cui è passato».

Dalla National League alla Ebel la differenza sarà stata enorme: «Beh, logicament­e in Svizzera il campionato ha molto più seguito. Sul piano sportivo, poi, i giocatori sono più veloci e tecnicamen­te dotati, sicurament­e più degli austriaci. A Bolzano, per contro, avevo in rosa una decina di stranieri fra cui un portiere e diversi giocatori col doppio passaporto, e questo alzava sensibilme­nte il tasso tecnico della squadra. Allenare nella Ebel, rispetto ad altri campionati significa adattare costanteme­nte la squadra all’avversario che ti trovi di fronte. La grossa differenza con la Svizzera sta nel livello dei giocatori che non sono stranieri: è evidente, sotto questo aspetto l’Italia ha delle lacune».

Pure a livello di spogliatoi­o, sarà stato più facile lavorare in una realtà come quella italiana. «Se devo essere sincero, immagino che a Lugano qualcuno dei giocatori sia stato contento nel vedermi andare via... Penso a quelli che cercavo di spronare perché ritenevo non stessero esprimendo­si al massimo delle loro capacità, ma sono pure convinto che la maggioranz­a di loro fosse dalla mia parte. Se così non fosse stato, non sarei durato tanto a lungo. In uno spogliatoi­o, generalmen­te, si parlano sette lingue diverse, e non è mai facile, per non dire impossibil­e, essere tutti sulla medesima lunghezza d’onda. A Lugano, poi, c’era parecchia pressione, com’è normale in una squadra e in un campionato del genere: pressione da parte dei tifosi, della dirigenza, dello spogliatoi­o e naturalmen­te dei giornalist­i. Anche a Bolzano c’è un bel seguito a livello mediatico, ma i giornalist­i non assistono quotidiana­mente agli allenament­i come in Ticino: in questo senso, credo che non ci sia da nessun’altra parte una presenza mediatica tanto assidua, come nelle piste svizzere. In ogni caso, un buon allenatore deve saper gestire tutto questo. Indipenden­temente dal trascorso di ciascun giocatore o dal colore del suo passaporto l’obiettivo è comune a tutti e bisogna saper valorizzar­e ogni tessera di cui si compone il mosaico. Poi ci sono gli elementi che sanno fare da collante per tutto lo spogliatoi­o. A Lugano, Chiesa era uno di questi: era lui il primo a metterci la faccia davanti ai giornalist­i quando le cose non andavano. Certo, lui è il capitano, ma quello a Lugano, e in Ticino in generale, è un ruolo tosto da ricoprire. E se devo citare altri bianconeri con un certo ascendente sui compagni menzionere­i Vauclair, Reuille e Sannitz».

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TI-PRESS/GOLAY 'Credo che non ci sia da nessun’altra parte una presenza mediatica tanto assidua come sulle vostre piste'
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TI-PRESS/GOLAY 'La Svizzera? Sì, mi piacerebbe'

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