L’Europa e il suo virus
Quello che non è finora riuscito all’aggressività degli schieramenti nazionalsovranisti, potrebbe oggi riuscire ad un.... virus. Negli ultimi due decenni, pur con tutti i suoi difetti, la sua mancanza di visione, i suoi egoismi, la sua assenza di progettualità, la sua disunione, l’Europa (Ue) è rimasta in piedi. Sempre più traballante, ma in piedi. Non c’era stata la spallata finale. Non l’avevano schiantata le turbolenze del debito pubblico (d’origine statunitense), la crisi dell’euro, la sfacciata dissidenza dei membri dell’Est europeo, la tragedia greca, la vergognosa gestione dei migranti, lo strappo della Brexit, e la crescente ostilità della Casa Bianca di Trump. Ma stavolta, a causa della grande emergenza sanitario-economica innestata dalla pandemia da coronavirus, il “pericolo è mortale”, come ha ammonito Jacques Delors, il grande vecchio dei “sogni che furono”. La solidarietà non si reinventa (se c’è mai stata) in un paio di mesi, dopo che per lungo tempo è stata minata, cancellata, mortificata e quasi espunta dalla carta europeista. Privandola del senso stesso della sua esistenza. Allontanandola da fette sempre più importanti dei suoi cittadini. Affidandola alle sole ‘regole gelide’ del mercato. E gonfiando le vele dei suoi oppositori interni (molti) e internazionali (potenti, non solo la Casa Bianca ma anche il Cremlino). Vero virus del progetto europeo.
Sì o no agli Eurobond, quale intervento della Banca europea di Investimento, che manovre da parte della Bce, quanto mettere nel “Sure” (il programma contro la disoccupazione) proposto dalla Commissione: insomma come procurarsi quella montagna di liquidità che, insieme agli interventi nazionali (ora che il dogma anti-deficit è congelato), dovrebbe evitare fabbriche fallite, eserciti di disoccupati e sotto-occupati, innumerevoli piccoli imprenditori e artigiani messi in ginocchio, senza dimenticare quella povertà e disuguaglianza che il maledetto morbo ha subito fatto emergere. “Whatever it takes”, come avrebbe detto (e in fondo ha appena ripetuto) Mario Draghi: “A qualunque costo”. Ma, appunto, quale bazooka comune assemblare in un’Europa puntualmente fratturata tra i rigoristi del Nord (Germania e Paesi anseatici) e quelli del Sud della spesa allegra? È vero che meno debito pubblico hai e più risorse avrai. Ma stavolta il classico, e in parte logoro, schema delle “formiche” e delle “cicale” lascia il tempo che trova. Questa non è una crisi “asimmetrica”, dove uno o più partner sono colpevoli della tragedia; è invece una “crisi simmetrica”, in cui ci stanno dentro tutti senza responsabilità specifiche: quelli più devastati dalle spese per l’emergenza sanitaria e per l’economia falcidiata; e quelli meno colpiti ma consapevoli (o dovrebbero esserlo) che non soccorrere Paesi come Francia, Italia, Spagna e gli altri del cosiddetto “fronte mediterraneo” avrebbe conseguenze nefaste per tutta l’Ue in termini di consumi interni, esportazioni, competizione internazionale, produttività, componentistica transnazionale. Se così fosse, e se si aggiungesse la tentazione dei più forti di fare shopping nei Paesi indeboliti, l’Ue rischierebbe davvero il suo funerale (e non sarebbe una festa nemmeno per l’economia svizzera). Volendo, un’Europa davvero compatta avrebbe una forza di fuoco da far invidia anche al Trump dei “duemila miliardi”. Ma non si può rispondere a una minaccia storica con dogmi vecchi come l’austerity. Arma spuntata. E fuori tempo. Ancor più oggi. Mentre tacciono i cantori del “meno Stato”.