Dei treni e del silenzio
Il vuoto dei vagoni, delle stazioni, i binari spogli dal viavai. Come spiagge di fine estate.
Poco distante da dove abito, in una strada secondaria che porta verso San Martino, a Mendrisio, con la mascherina mi siedo poco distante dal passaggio dei treni, una posizione rialzata e sicura a più di cento metri dai binari. Sono solo. Le corse dimezzate, il ritmo verso nord o sud, lento, così l’attenzione va sui fili elettrici, le postazioni a terra e al Monte San Giorgio, custode di un tempo remoto eppure vivo, presente. Un signore porta a spasso un cane, segue il sentiero sterrato che alla fine tocca Riva San Vitale; si ferma, riparte. Ho pensato a un altro cane, quello che di solito abbaia quando passo in bicicletta e che oggi mi ha solo guardato.
Perché? Gli scompartimenti sono vuoti e in quei pochi secondi dove l’immagine fa di sé un simulacro moderno, apparenza tanto reale da creare uno stacco con la stessa realtà, si avverte la metamorfosi che il treno incarna nel suo essere disabitato, struttura allineata con altre tecnologie, quelle che al più alto grado risvegliano un ‘io pensante’ che soffre, ama, ricerca.
Lo racconta Ian McEwan in ‘Macchine come me’, il suo ultimo, intenso, lavoro. Quale sguardo, ora che uomini e donne stanno per conoscere una moltitudine di emozioni disperse nel caos che sopraggiunge e sommerge? A tessere sparse vedo scie luminose, numeri, scritte sulle fiancate, le sagome colorate dei sedili; torno a guardare come un bambino le cose non solo per quello che sono ma per ciò che gli effetti di un’immaginazione allo stato puro, intravedono. Un gioco di forme, la visualità che cerca di tenere insieme oggetti lontani creando associazioni, parentele, quel gioco che ci trasmetteva il bello dell’incompiutezza e del desiderio. L’assenza di fini, l’indeterminato. L’albero che non è albero, ma respiro, direzione e destino, un atto di libertà per dirla con Paul Celan.
Se tutto tace
Cos’è oggi, quella macchina che ogni giorno accoglieva migliaia di persone sedute con i loro telefonini, i giornali, le parole dette, la promessa di un ritorno condiviso, se tutto tace? Forse non lo sappiamo, restiamo increduli a osservare ciò che abbiamo fatto, costruito, voluto, se per un motivo qualsiasi ne restiamo fuori. Il vuoto dei vagoni, delle stazioni, i binari spogli dal viavai, sono architetture che danno l’idea di una spiaggia a fine estate, il bagnino nella sua ultima levata di ombrelloni e sdraio, un asciugamano perso nel vento. Una stagione che va finendo, un’epoca che finisce. Allora, mentre guardo là sotto, penso al romanzo di Georges Simenon, ‘L’uomo che guardava passare i treni’, un modo di vivere che come questi lunghi intervalli diventa urgenza di un grido, di una ribellione. Di un pensiero assente quanto presente – ricordando Maurice Blanchot – lasciandolo dove è per essere libero.
Esplorare, è accettare di essere in nessun luogo e per questo sentire che il transito è in qualche modo il nostro destino; passare una mezza giornata, qui, è variante che morde l’anima. Ci illuminiamo nel momento del vuoto. Dei distacchi. Questo vuoto lo penso quale silenzio, un silenzio che è sempre stato tra noi e che noi, distratti, avevamo perso. Non solo, come spesso si dice, assenza di rumore o di parole eccessive, piuttosto capacità di stare nel mistero della vita, il ‘rombo lontano del tuono a un picnic’, scrive Auden. Essere all’ascolto del silenzio è spartire col mondo una corrispondenza antica, l’oblio e il ricordo, ‘le maree che ci trascinano verso il cuore della notte’. Al momento non c’è forza consolatoria, significato che fuori dal tema del limite possa trovare spazio: la vita è oltre noi, per questo nei momenti più difficili cerchiamo di tornare alle domande, all’attesa che chiama e risveglia. Se provvisto di penna e taccuino il signore che guarda passare i treni avrebbe tentato di disegnare i volti assenti, la loro carnagione, gli abiti, l’onda che ogni giorno si perde nel tramestio che conosciamo, rapido, molecolare. E se ne fosse capace, gli appunti potrebbero essere il primo atto di uno spettacolo fatto con attori di strada e con pochi mezzi. Ci vorrebbe poi un titolo, ma per questo c’è tempo.