Ho paura delle mascherine
Ho paura delle mascherine. Forse tanta quanto dal virus stesso. L’obbligo deciso in Lombardia di doverle indossare per chiunque esca fuori casa fa accrescere il mio timore. Se arrivassimo anche qui a un tale punto, lo so, sarò costretto a superare questa mia paura. Una paura che ha un’origine ben precisa: torno per un attimo a quell’istante. Buenos Aires, 1995. Entro nel reparto di cure speciali per i pazienti appena sottoposti a un trapianto di midollo osseo. Mia mamma è stesa sul lettino, pallidissima. Il suo è stato un autotrapianto, l’ultimo (vano) tentativo di sconfiggere il cancro. Già da tempo ha perso capelli e sopracciglia a causa della chemio. Indosso la mia mascherina, guanti e copriscarpe. Cerco nella mia memoria colori di quella stanza, ma ritrovo solo un odore sgradevole, fortissimo. Lei mi chiede aiuto per sedersi e potermi guardare. Mi avvicino. Le dico che la mascherina mi dà fastidio, che non riesco a respirare e provo a togliermela. Nonostante la sua debolezza, riesce a rimproverarmi per il mio gesto. Poco dopo mi chiede di andarmene.
Mia madre non si fidava molto della medicina tradizionale, ma ha intrapreso tutto quanto la scienza è stata in grado di offrirle perché amava la vita. E perché non si rassegnava all’idea di doverci lasciare da soli: mia sorella in attesa della sua prima figlia, mio fratello alla ricerca di un cammino, me sedicenne. Soltanto anni dopo sono arrivato a comprendere che quel suo gesto di mandarmi via non era un vero rimprovero. Lei non poteva esporsi al pericolo di avermi lì senza mascherina, ma soprattutto voleva proteggermi: pensava che quella situazione era troppo per un ragazzino. Aveva ragione.
“Voglio vivere. Mi sono accorto con tutto questo che voglio andare avanti”. È la voce di mio padre al telefono che mi riporta nel presente. Sono passati venticinque anni. Ora mia sorella ha tre figli, mio fratello due e io quattro (dai tre più piccoli, che si trovano dall’altra parte dell’oceano, sarei dovuto arrivare proprio ora, mentre scrivo queste righe). “Qualche anno fa pensavo che ormai ero a posto: dopo ottant’anni se mi tocca, mi tocca. Ma adesso, che c’è questo virus là fuori, mi rendo conto che non voglio morire. Starò a casa almeno fino a settembre”. Una foto su WhatsApp lo mostra seduto davanti alla finestra, indossando una mascherina. Laggiù vige una quarantena obbligatoria per chiunque, si può andare fuori soltanto a fare la spesa o in farmacia. La polizia per strada controlla tutto e tutti, ci sono fermi e multe in caso di disubbidienza. Per fortuna al suo fianco c’è mio fratello che lo aiuta. Mio padre non deve più uscire. Dal mio divano, lontano diecimila chilometri dal suo, provo comunque una grande impotenza. La stessa che proveranno tutti, anche chi i genitori o i nonni ce li ha a pochi passi da casa.
È normale avere paura – mi dico –, ma bisogna andare oltre. Dobbiamo avere pazienza e rimanere uniti, nonostante le distanze. E se fosse necessario, sarò pronto a rimettermi la mascherina. politici (Bob Kennedy, Martin Luther King), la guerra in Vietnam, la repressione nel sangue della Primavera di Praga… Più gioioso fu invece il mutamento dei costumi e dei comportamenti, anche se la “rivoluzione sessuale” mise in allarme le famiglie quando apparvero in traduzione italiana i saggi di Marcuse e Reich. E poi l’onda delle nuove tendenze, subito cavalcate dall’industria culturale: la musica rock, la poesia beat, i capelli lunghi e le barbe incolte, la sigaretta sempre accesa… Bisognava stare in gruppo, assecondare movenze e linguaggi dei leader, accalcarsi in assemblee caotiche. Infine venne la stagione dei viaggi, dei raduni, delle “esperienze” all’estero, delle spedizioni in India, con il ‘Siddharta’ di Hesse sotto braccio: atto iniziatico ma anche, per alcuni, anabasi senza ritorno nei paradisi artificiali della droga. Insomma, una generazione in movimento, curiosa, libertaria, critica dell’ordine costituito, affezionata ai giornali e ai libri, che ora, nelle vesti di nonni/nonne, si ritrova confinata in casa per ordine di quelle autorità che cinquant’anni fa sarebbero state sommerse da sberleffi. Questo il destino degli ex sessantottini, ora sessantottenni. Dai cortei al divano, dai sit-in ai fornelli, dal sogno rivoluzionario alle quotidiane conferenze stampa del medico cantonale.