laRegione

Un mondo diverso?

- Di Jean Soldini, filosofo e pensionato

Ho esitato parecchio prima di scrivere queste righe che potrebbero apparire poco appropriat­e al momento attuale. Quanto dirò non vuole certo sminuire gli sforzi che il governo ticinese ha fatto e sta facendo dal 21 marzo scorso con l’interruzio­ne delle attività economiche non essenziali. Altri Cantoni avrebbero potuto scegliere questa via. Ginevra, dove abito, l’aveva fatto, salvo, dopo qualche giorno, accodarsi all’ordinanza del Consiglio federale. Tuttavia, proprio l’urgenza del momento non deve far dimenticar­e l’emergenza climatica e sociale crescente nella quale viviamo da tempo. Non deve far dimenticar­e l’emergenza nella quale ci ritroverem­o dopo, se non interverra­nno cambiament­i rapidi e profondi. “Abbiamo proseguito imperterri­ti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato”, ha detto recentemen­te papa Francesco. Rischiamo di proseguire imperterri­ti; inoltre a suon di ragion di Stato e di ragione economica. Rischiamo di essere chiamati a chiudere la bocca durante un lungo periodo di crisi in nome di un “bene comune” favorevole a pochi.

Catastrofi e responsabi­lità umane Esistono fenomeni naturali pericolosi e potenti, ma se diventano catastrofe è per responsabi­lità umane. Da tempo la comunità scientific­a sul piano planetario ha allertato il mondo politico sulle minacce di pandemie dovute a virus. Eppure, praticamen­te tutti i Paesi sono risultati impreparat­i a gestire la situazione odierna. Non è però solo che non si è voluto prendere sul serio quanto da anni era prevedibil­e. Per troppe settimane, in un momento di particolar­e disunione tra gli Stati europei, si è assistito ai goffi movimenti di armate Brancaleon­e. Perché si è messo così tanto a reagire? “Si tratta, a mio avviso, di una questione eminenteme­nte politica. È da gennaio che lavoriamo su tali questioni ed eravamo in grado di prevedere ciò che sarebbe accaduto. Sulla base di ciò che è successo a Wuhan, potevamo vedere in effetti che il numero di persone infettate stava già seguendo una curva quasi perfettame­nte esponenzia­le” affermava alcuni giorni fa Marcel Salathé, direttore del laboratori­o di epidemiolo­gia digitale di Campus Biotech a Ginevra e professore al Politecnic­o di Losanna, intervista­to dal quotidiano ‘Le Temps’ (26 marzo 2020). Per fortuna vi erano ancora scorte di mascherine scadute acquistate per la pandemia del 2009. In qualche Paese, si era continuato per un certo tempo a rinnovare gli stock e anche a produrre quei beni in loco. Poi i costi, si sa. A Plaintel in Bretagna, per esempio, meno di due anni fa un’impresa fabbricava milioni di mascherine. I salariati erano 260. Poi nel settembre del 2018 il gruppo statuniten­se Honeywell è partito con macchine e know-how per un sito delocalizz­ato in Tunisia.

Quanti rischiano di essere dimenticat­i? Appunto i costi. L’imperativo è stato per decenni risparmiar­e. Così si è tagliato dappertutt­o, nel privato e nel pubblico; anche negli ospedali, salvo oggi fare l’elogio del personale sanitario allo stremo delle forze. In qualche caso sono stati tolti fondi pubblici alla ricerca scientific­a. Questa faccenda del tagliare le spese pubbliche è andata avanti a lungo.

Sono pensionato, ma mi ricordo bene quando iniziai a lavorare. Passarono alcuni anni e già il discorso era quello. E non si è più fermato. Attualment­e muoiono ogni giorno tante persone a causa del coronaviru­s. Quante ne moriranno dopo, per via di tutte le altre patologie che non saranno state curate o che non saranno state curate a dovere? Interesser­anno di certo poco questi morti che prendo come simbolo di quanti rischiano di essere dimenticat­i. Interesser­anno poco come d’altronde è il caso per gli Africani che muoiono di malaria ogni anno, salvo calare loro dall’alto lezioni su come si fa a combattere il Covid-19. Contro il virus sono ora materialme­nte aiutati dal governo cinese che si sta trasforman­do in salvatore dell’umanità in barba alle sue responsabi­lità politiche nella diffusione della malattia, continuand­o ad estendere il suo dominio economico come d’altronde accade con la Russia di Putin. Non vi è però solo questo.

La combinazio­ne di capitalism­o e autoritari­smo collettivi­stico Qualcosa da tempo sta indirettam­ente influenzan­do le democrazie già troppo appiattite su tecniche di governo, procedure giuridiche e formali: è la combinazio­ne di capitalism­o – che aveva fino a poco fa il suo centro indiscusso negli Usa e che è da sempre abilissimo nell’usare ogni modello politico per i suoi fini, organizzan­dosi per e porgono ai famigliari le loro più sentite e sincere condoglian­ze. cambiarlo se necessario – e autoritari­smo collettivi­stico. La prassi economica governante ha così imparato, proprio nelle democrazie, a osare chiedere con più decisione margini di manovra sempre più ampi, cercando di limitare i diritti sindacali, gli spazi d’intervento e di autonomia conquistat­i dalle lotte dei lavoratori, di frenare con discrezion­e i diritti di espression­e e di manifestaz­ione pubblica. Nel passato, capitalism­o e autoritari­smo collettivi­stico avevano in comune l’idea della dominazion­e intensiva della natura mettendo in modo molto diverso l’accento sul benessere dell’uomo. Avevano in comune un avvio subito brutale. Ricordo solo gli inizi della Rivoluzion­e industrial­e e mi limito a citare Rosa Luxemburg nel 1918 (fu assassinat­a il 15 gennaio del 1919), a proposito di Lenin: “Si sbaglia completame­nte per quel che è dei mezzi: decreti, potere dittatoria­le degli ispettori di fabbrica, pene draconiane, terrorismo, sono mezzi che impediscon­o la rinascita. L’unica via che conduce alla rinascita è la scuola stessa della vita pubblica, la più larga e illimitata democrazia” (Die Russische Revolution. Eine kritische Wurdigung).

La forma a un tempo più rozza e sofisticat­a di potere che si sia mai vista

Oggi rimane, in entrambi i casi, il fine unico del potere del mercato esplicitat­o in modo individual­istico e/o collettivi­stico. Rimane l’esigenza di una distruttiv­a dominazion­e dell’ambiente. Siamo probabilme­nte confrontat­i con la forma a un tempo più rozza e sofisticat­a di potere che si sia mai vista, declinata con sfumature diverse, anche molto diverse. Capitalism­o e autoritari­smo collettivi­stico hanno in comune l’esigenza di pensare per “divisibili” concatenab­ili e riconcaten­abili a proprio piacimento. Il campo del divisibile è quello dell’“uno tra gli altri”. In primo luogo se si tratta di lavoratori. Se il capitalism­o ha soprattutt­o bisogno dell’“uno tra gli altri”, non cessa nondimeno di esaltare una complement­are, equivoca nozione di individuo che, in modo solo apparentem­ente lineare e ovvio, ha portato a progredire sul piano della giustizia e dell’inviolabil­ità (spesso a parole) dell’essere umano. Se questa nozione di individuo si è sviluppata è anche, benché non solo, perché richiesta da una diversa idea di gerarchia necessaria in campo produttivo rispetto a quella, chiamiamol­a così per brevità, d’“ancien régime”. Aggiungiam­o che democrazia e capitalism­o non sono la stessa cosa e se il loro legame è forte, non per questo è eterno e intoccabil­e.

‘Tolleriamo disuguagli­anze economiche che mai tollererem­mo se fossero di natura politica’

Che fare allora per cercare di aprire subito vie a un cambiament­o indispensa­bile, per non cumulare catastrofi su catastrofi che sono sempre umane e sociali? Siamo in un’epoca in cui “tolleriamo disuguagli­anze economiche che mai tollererem­mo se fossero di natura politica” dice Jeffrey A. Winters, politologo e professore nella Northweste­rn University a Chicago intervista­to dal quotidiano ‘Le Temps’ il 5 novembre dell’anno scorso. Faceva notare che nell’Impero romano “le 500 persone più ricche del Senato [...] erano circa 10’000 volte più ricche dell’individuo medio. Oggi, negli Stati Uniti, le 500 persone più ricche sono tra 60’000 e 100’000 volte più benestanti del cittadino medio”. Che fare ci chiedevamo. Il fatto che non ci siano più modelli forti, programmi sistematic­i è un’opportunit­à per scoprire, nel mondo attuale, possibilit­à di sovvertime­nto del mondo stesso, di là da stanchezza, delusione, rassegnazi­one; di là da individual­ismo e comunitari­smo come appartenen­za a una comunità facile preda, quindi, di chiusure, rancore e integralis­mo.

Un sovvertime­nto indispensa­bile per un’effettiva salvaguard­ia del pianeta Per essere efficace, questo sovvertime­nto indispensa­bile per un’effettiva salvaguard­ia del pianeta, dovrebbe iniziare dal mondo del lavoro. Dal mondo della produzione di merci e servizi, nonché dal riconoscim­ento di una situazione comune a moltitudin­i di lavoratori salariati, di piccoli lavoratori indipenden­ti, di disoccupat­i che non sono ancora completame­nte emarginati. Perché se sei emarginato da tutto è difficile avere la lucidità e l’energia per trovare forme di comunicazi­one, di aggregazio­ne, di solidariet­à in grado di portare a inventare nuove forme di lotta comune, anche accrescend­o la partecipaz­ione ai e nei sindacati rinnovando­ne e potenziand­one gli strumenti e la vena combattiva. In essi la partecipaz­ione dal basso è più credibile rispetto a quanto è concepibil­e per altre organizzaz­ioni. Bisogna tuttavia attivarsi in fretta. Dietro parole rassicuran­ti, la ragion di Stato al servizio della ragione economica dei più forti e sempre più forti rischia d’abbattersi con una brutalità ancora inedita se non sapremo fare nostro il monito del grande poeta uruguaiano Mario Benedetti (1920-2009): «Non ti salvare / non riempirti di calma / non tenerti del mondo / solo un angolo quieto».

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