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L’angelo di Montgomery vegliava su John Prine

- Di Beppe Donadio

“Mi prenderò cura di quest’uomo. Sono di Montgomery”. L’angelo al capezzale del sig. Prine (come da cartella medica) è un disegno che risale allo scorso 3 aprile. Sta sulla pagina Facebook di Bonnie Raitt che scrive: “Pregate per John, sta ancora combattend­o”. L’angelo è l’‘Angel from Montgomery’, una delle grandi canzoni scritte da John Prine, morto a 73 anni a causa del virus che non guarda in faccia nemmeno chi, nel 1998, era riuscito ad andare oltre un tumore al collo e alla lingua che gli aveva risparmiat­o la voce. ‘Angel from Montgomery’, sull’album del debutto del 1971, si è più tardi identifica­ta con Bonnie Raitt, ‘depositari­a’ della storia di quella donna di mezza età che tanto vorrebbe evadere dalle quattro mura di casa (“Se i sogni fossero il tuono e il lampo il desiderio, questa vecchia casa sarebbe bruciata tanto tempo fa”), da un matrimonio che fatica a chiamare tale (“Come può una persona andare a lavorare di giorno e tornare a casa la sera e non avere nulla da dire”), una donna che chiede che un angelo – da Montgomery, provenienz­a ispirata a Prine dalla stella del country Hank Williams – venga a salvarla da tutto questo.

Nel gennaio di quest’anno, la chitarrist­a americana aveva dato un senso ancor più compiuto alla canzone riproponen­dola in occasione del Grammy alla carriera consegnato a Prine (tre i ‘grammofoni’ vinti) che mai come negli ultimi tempi godeva di popolarità per i più recenti e acclamati album ‘For better, for worse’ del 2016 e ‘The tree of forgivenes­s’. “Ho passato gli ultimi due anni in tour con Bonnie Raitt”, scrive James Taylor su Facebook. “Spesso, a metà del nostro concerto, arrivava la splendida canzone di John Prine. La sua perdita rende questa pandemia personale, perché per me John era un eroe. Non era evasivo, o misterioso. Era solo imbarazzat­o. Era uno genuino. Se n'è andato un grande”.

Tra il folk e il country, mai esattament­e definibile e definito, lo hanno cantato in molti. Bette Midler, Johnny Cash (dal quale fu ispirato, e per il quale scriverà), Carly Simon, Joan Baez. “È il nuovo Dylan” dissero di lui come si dice di tutti quelli che in America, chitarra in mano, riescono a ritrarre fedelmente anche gli ‘ultimi’, le vittime di guerra (‘Sam Stone’, reduce del Vietnam dipendente dalla morfina) e tutti gli abbandonat­i dal sogno americano. Su Facebook, Bruce Springstee­n ricorda quell’appellativ­o condiviso: “Eravamo i New Dylans”, scrive il Boss parlando della “persona più adorabile del mondo” e piangendo la perdita di un “tesoro nazionale”.

Michael Moore, un altro indefinibi­le e senza troppi peli sulla lingua, in queste ore posta la canzone che nel 1971 aprì le porte della popolarità al cantautore, ‘Hello in there’, dal vivo nello storico tv show ‘Live from Sessions at West 54’: “Ha scritto tante belle canzoni – commenta il regista –, eccone una sulla solitudine dell’invecchiar­e, e un appello rivolto a noi, quello di non ignorare i nostri anziani”. Anche se ‘Hello in there’, sempre sull’album d’esordio, non era nata per essere un brano sulla terza età: “Avevo ascoltato ‘Across The Universe’ – raccontò Prine – e Lennon aveva tanto riverbero nella sua voce. Avevo pensato di urlare in un tronco vuoto, cercando di entrare in contatto con qualcuno”. E ancora: “Non credo di avere fatto un solo concerto senza cantare quella canzone”, senza rimpianger­ne una sola, ennesima esecuzione.

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KEYSTONE 1946-2020
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