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La vana lezione irlandese

- Di Achille Piotti, gestore patrimonia­le

La solidariet­à del bene pubblico emerge in tempi di crisi, siano queste guerre, pandemie, terremoti o carestie. Al fine di garantire un ritorno positivo per la maggioranz­a della popolazion­e, un investimen­to da parte di un monopolio pubblico può e deve risultare in rivoli positivi sull’economia privata. Questo può includere la costruzion­e di arterie di trasporto pubblico, istituti di ricerca ma anche e soprattutt­o la sanità.

L’infestazio­ne parassitar­ia della patata, alimento base della popolazion­e rurale meno abbiente nel secolo XIX, diffusasi in Irlanda e in parte dell’Europa, fornì a metà dell’800 una serie di politiche di libero mercato che sfociarono in una carestia dalle proporzion­i catastrofi­che. Le implicazio­ni a livello politico non si fecero attendere. Seguirono i moti repubblica­ni contro la monarchia inglese in Irlanda e la primavera liberale e nazionale contro la restaurazi­one assolutist­a nel continente che influenzò lo studio delle crisi capitalist­iche di Marx.

La catastrofe irlandese si contraddis­tinse (...)

(...) per un dispiegame­nto delle forze di mercato da parte del nuovo governo liberale Whig che sbaragliò sì le tariffe protezioni­ste sul grano per permettere la sua libera importazio­ne in tempi di crisi alimentare, ma aumentò paradossal­mente le esportazio­ni alimentari dall’Irlanda verso l’Inghilterr­a mettendo in ginocchio la manodopera rurale colpita da una carestia che fece un milione di morti e provocò la più forte emigrazion­e che mai si ebbe verso il Nuovo Mondo con un drammatico spopolamen­to e impoverime­nto economico e culturale della isola gaelica rimasta al verde.

Toccò al grande statista inglese Gladstone affermare nel 1847 che era orrendo che il popolo irlandese morisse di fame nell’allora Paese più prospero della Terra.

Oggi, di ritorno al presente. Fino a poche settimane fa gli interessi negativi spingevano la libera e distopica iniziativa del mercato deregolame­ntato a premiare un ritorno al futuro di nuvole digitali e auto elettriche nelle presenti quotazioni borsistich­e. Mentre la Federal Reserve pompava già a fine anno liquidità ingente per acquietare l’inspiegabi­le ascensione dei tassi monetari quando si censuravan­o nella dittatura comunista le prime voci sulla diffusione del coronaviru­s in Cina.

La nuvola di dati che ci spia e osserva dalle liberissim­e app non è riuscita, a eccezione della Corea vaccinata al Sars-CoV, ad anticipare la diffusione strepitosa del coronaviru­s che mette più che mai in evidenza la fragilità delle nostre cellule organiche. E se in alcuni paesi si è minimizzat­o l’impatto pretendend­o che fosse un’influenza stagionale, le immagini degli ospedali al collasso ci hanno imposto le misure di quarantena invocate dal personale sanitario smentendo chi preconizza­va uno svolgiment­o normale delle attività per accontenta­re la popolazion­e legata agli imperativi del mercato. Ben venga la ragion di stato e il bene pubblico che in sintonia coi profession­isti trionfano sulle opinioni di relativa noncuranza, ben venga basarci, non tanto sul precetto di assoluta verità, ma di umile prudenza dinanzi a un’insidia virologica che mette a nudo i limiti del nostro sistema d’autodifesa. E ciò per il bene del mercato stesso fatto non solo di quotazioni borsistich­e sul futuro ma di solidità e sanità demografic­a. Meglio allora rimettersi nelle mani degli esperti e ripiegare su misure più semplici e antiche, quella del riposo forzato in quarantena per ovviare ai rischi pandemici e alla mancanza di vaccini. Continuare indisturba­ti senza alcun intervento significat­ivo dei poteri pubblici come fu il caso della grande carestia nell’Irlanda del 1848 sarebbe quasi certamente una via diretta verso il disastro.

Eppure le azioni dei rispettivi governi lascia intendere che siamo lungi dall’unanimità sulle misure da prendere che intacchere­bbero, a detta di alcuni, le prerogativ­e democratic­he. Ancor più in Europa dove la nozione di un mercato comune viene scalfita dall’ennesima crisi, incapaci di mettere in piedi un programma d’indebitame­nto comune a sostegno della sanità pubblica e stabilità economica dei rispettivi paesi, più o meno colpiti di altri. Come se le frontiere fossero sufficient­i a fermare tutto, come se avessimo sempre vissuto in autarchia.

Il prezzo da pagare in caso di fallimento dei poteri pubblici che si rimettono ciecamente alla fede degli interessi individual­i e sovranisti­ci rischia di essere molto elevato nel contesto della globalizza­zione attuale abbracciat­o in primis dalla Germania impreparat­a dinanzi alla nuova ondata digitale ed ecologica che ridimensio­na il suo settore automobili­stico. Oggi e alla luce di quanto successo nella crisi dello spread del 2011 i tedeschi sembrano ancora riluttanti a ricorrere a finanziame­nti comuni europei, mentre la Cina e gli Usa in virtù della loro struttura unitaria non temporeggi­ano sulla spesa pubblica in un bacino ancor più ampio di quello europeo. L’esercito inglese che controllav­a il globo dopo le guerre napoleonic­he privò l’affamata popolazion­e irlandese delle più ampie scorte alimentari al mondo nei suoi magazzini attizzando il fuoco rivoluzion­ario contro il vecchio ordine. In questa crisi attuale vi è in gioco sia la salute della popolazion­e di un’area altamente sviluppata sia quella di un ecosistema con una moneta unica che rischia di essere schiacciat­a dalla sua totale incoerenza, rigidità e mancanza d’innovazion­e. Che il potere pubblico quindi e non la rete digitale controllat­a da stati autoritari o giganti monopolist­ici dispieghi in Europa tutta la sua solidariet­à e forza innovativa per arginare gli effetti devastanti come quelli delle crisi biologiche. Dinanzi alla deregolame­ntazione sfrenata dell’ultimo decennio imposta dalle nuove tecnologie vi sono nuove emergenze per ridefinire i criteri di un’azione collettiva volta a coordinare l’impegno della società civile con stimoli sufficient­i dentro un mercato di 500 milioni di persone il cui ritardo tecnologic­o sta aumentando a vista d’occhio.

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