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Nello specchio dell’Italia

- di Erminio Ferrari

Prendiamo l’Italia. Il Paese europeo più colpito dall’epidemia di Covid-19 è quello per il quale si prevedono le più disastrose conseguenz­e economiche. Non è difficile immaginare come queste ultime si riflettera­nno su un tessuto sociale già in sofferenza. Meno prevedibil­i sono gli scenari politici che ne deriverann­o, pur se i segnali che si colgono sono inquietant­i. Un quadro a cui tutti dovrebbero prestare attenzione, dato che l’Italia, almeno nell’ultimo secolo, è stata laboratori­o di più fenomeni politici la cui portata è andata ben oltre i suoi confini, e altrettant­o sovente è uno specchio in cui tutti prima o poi devono guardarsi.

A rendere più drammatico il caso italiano non è stata soltanto l’evidente impreparaz­ione all’arrivo del virus (condivisa con il mondo intero, compresa la parte più avvezza a disprezzar­e i macaronì) ma soprattutt­o l’assenza di un ceto politico in grado d’indicare una credibile prospettiv­a di ricostituz­ione delle ragioni collettive necessarie a soccorrere un Paese nella sciagura.

E benché si senta spesso parlare di ‘guerra’ per descrivere questi tempi, non è davvero il caso di parlare di rifondazio­ne o di rinascita: quella fu l’esperienza dei costituent­i all’indomani del ventennio fascista e della guerra che lo concluse. ‘Questi’, fortuna loro, non hanno dovuto passare per una simile prova; ma nemmeno, sfortuna e colpa degli italiani che vi si sono affidati, hanno cognizione storica di cosa fu quella prova, e sono del tutto impreparat­i a concepire un progetto di Paese fondato sul bene comune. Vengono da esperienze di frustrazio­ne o di privilegio, il peggior viatico per chi svolga incarichi di responsabi­lità politica e istituzion­ale (nazionale e locale), tanto più in tempi estremi.

Un parlamento i cui membri, con poche stimabili eccezioni, agiscono da concorrent­i di un talent show, e un’azione politica ridotta alla disputa di quote di visibilità sugli smartphone hanno prodotto un deserto sgangherat­o in cui il solo presidente del Consiglio, per necessità o per ambizione, si intesta decisioni che richiedere­bbero, al contrario, la più estesa e responsabi­le condivisio­ne.

Si chiama débâcle della politica. Come interpreta­re diversamen­te l’insistito ricorso a ‘commissari’, ‘task force’, uomini e organismi (seppure informali e ‘consultivi’) a cui delegare di fatto ruoli che un governo dovrebbe naturalmen­te assumere su di sé e dei quali rispondere al legislativ­o?

Questa epidemia, come è ormai provato, non ci è caduta addosso per un caso sfortunato. E, d’accordo, questo è il senno del poi, ma con il senno del prima non si può non vedere che molti (compresa un’Unione europea non si sa se più cinica o cieca) ci stanno mettendo del loro. Per incapacità o per calcolo, appunto, ma è difficile distinguer­e. Né, abbiamo detto sopra, sappiamo dove condurrà, e già ora non c’è da ingannarsi sulle ‘lezioni’ che ne trarremo.

Se, di nuovo, l’Italia è una spia attendibil­e di un futuro prossimo, allora bisogna piuttosto ricordare l’avvertimen­to di Paolo Rumiz. ”Mi ero illuso che i fascisti fossero spariti”, ha scritto quella gran penna, e invece no: “Aspettano il momento”. Se il fascismo convinse (e bastonò) milioni di persone dopo il disastro della prima guerra mondiale, nella liquefazio­ne di un precedente ordine politico ormai screditato, dopo il disastro del coronaviru­s, qualcosa che non vorrà chiamarsi fascismo ma ne avrà stessa natura potrà tornare a farlo. O forse no, ma è bene saperlo.

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