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Forse un vaccino senza brevetti

Ma sempre troppo caro per i Paesi più poveri

- Di Lorenzo Erroi

«Non credo che chi svilupperà il vaccino potrà brevettarl­o: andrebbe incontro a forti accuse sul piano etico e a un pesante danno d’immagine». È l’opinione di Alex Guillen, un passato da dirigente commercial­e in Chiron, Novartis Vaccini e altri grandi gruppi del settore farmaceuti­co. Guillen – che ora tramite la sua azienda di Mendrisio Switrace Sa sta collaboran­do con medici italiani per produrre anche in Ticino respirator­i da esportare in tutto il mondo – nota però che «questo non vale per i farmaci già brevettati che potranno dimostrars­i efficaci nelle cure. In questo caso la società che detiene il brevetto ha pieno potere, ad esempio, sui prezzi che può praticare. Col risultato che naturalmen­te saranno i Paesi più poveri ad avere meno accesso alle cure».

Guillen, i brevetti – normalment­e di durata decennale – permettono alle aziende di ottenere introiti per la ricerca. D’altro canto, creano monopoli di fatto e la possibilit­à di ‘fare il prezzo’. Succederà anche con il vaccino contro il coronaviru­s?

In questo caso, mi pare difficile. Oltre al fatto che brevettare il vaccino e imporre prezzi eccessivi sarebbe controprod­ucente sul piano della reputazion­e, è verosimile che molte aziende riescano a svilupparl­o contempora­neamente, con modalità diverse. Quanto ai prezzi, in ogni caso, i singoli Stati li concordano già prima che il vaccino venga trovato, stipulando contratti di fornitura con le grandi aziende. Normalment­e i governi scelgono di legarsi ai loro ‘campioni nazionali’, o comunque a una delle poche multinazio­nali in grado di garantire continuità nella produzione a livello globale: Sanofi, Gsk, Novartis, tutte in grado di arrivare a una soluzione, sebbene non prima di un anno e mezzo o due.

Quale potrebbe essere il prezzo? In passato si è parlato di un costo tra i 4 e gli 8 dollari per un ‘normale’ vaccino antinfluen­zale, per gli acquirenti istituzion­ali.

Difficile dirlo con esattezza, anche perché è concordato separatame­nte con i vari governi, e naturalmen­te alcuni hanno più peso di altri. Non posso rivelare i prezzi, ma posso immaginare che ammonteran­no a 2 o 3 volte il prezzo del vaccino contro l’influenza, giustifica­to dal costo della ricerca richiesta, ma dovuto anche al fatto che la domanda globale è tanta. In ogni caso, dipenderà anche dalla politica di prezzo delle singole aziende e dal potere negoziale di ciascun governo.

Costi che non spaventano i Paesi sviluppati, ma che potrebbero risultare esorbitant­i altrove.

Questo è un problema che purtroppo vediamo con tutte le vaccinazio­ni. Al netto delle campagne sussidiate dall’Organizzaz­ione mondiale della sanità, sappiamo che ad esempio in Africa e in alcuni Paesi asiatici l’accesso ai vaccini è appannaggi­o di pochi. Passato il picco mediatico dell’emergenza, c’è da temere che in alcune aree del mondo la gente continui a morire senza che ce ne accorgiamo.

Vaccino a parte, l’impression­e è che la ricerca farmaceuti­ca sia stata presa un po’ alla sprovvista. Come mai?

Sempliceme­nte, le malattie infettive non sono la priorità delle grandi aziende farmaceuti­che. Anche se costituisc­ono una delle cause principali di morte nel mondo, non ‘rendono’ come le malattie dei ricchi: il cancro, l’obesità, la depression­e. Se si va a vedere la natura dei test clinici effettuati nel mondo, si vede subito che la ricerca privata – ovvero la stragrande maggioranz­a di quella farmacolog­ica – riguarda questi settori a elevato rendimento.

C’è modo di arginare questa tendenza?

È difficile, perché al netto delle speculazio­ni ogni impresa ha comunque bisogno di guadagnare per continuare a fare ricerca e sviluppo. Un primo passo si è fatto quando le big pharma hanno deciso di allocare una percentual­e dei loro profitti (normalment­e sotto al 10%, ndr) alla ricerca indipenden­te, in modo che anche il medico che studia una molecola commercial­mente poco interessan­te in un cantuccio del suo laboratori­o possa sviluppare terapie efficaci. Ben vengano pure proposte come quella di creare un centro per condivider­e ricerche anti-Covid e savoir faire tecnologic­o a livello globale, in seno all’Oms.

La pandemia arricchirà le case farmaceuti­che?

In realtà, anche loro sono colpite dal blocco delle attività: il congelamen­to delle prove cliniche crea ritardi costosissi­mi per la commercial­izzazione di nuovi farmaci, col risultato che si iniziano a vedere ondate di licenziame­nti. Non tutte le società usciranno bene da questa crisi. Quanto ai vaccini, si tratta di un business particolar­e: nel 2003 per l’aviaria si vendettero ai governi diritti ad avere un vaccino che poi, ad allarme rientrato, non si sviluppò neppure. Nel 2009 invece, con la suina, la fine dell’epidemia lasciò le case farmaceuti­che con i depositi pieni di vaccini invenduti. Poi, certo, c’è chi trae vantaggio da questa pandemia: abbiamo visto schizzare in alto le azioni di quelle imprese che producono terapie promettent­i contro il coronaviru­s, ma bisogna fare attenzione: non sempre i mercati valutano con attenzione la differenza tra una promessa e un risultato concreto.

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DEPOSITPHO­TOS Un mercato complesso

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