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Lo ‘scandaloso’ Peter Surava

Finalmente tradotta in italiano l’autobiogra­fia del giornalist­a svizzero morto nel 1995

- Di Stefano Guerra

Dava fastidio Hans Werner Hirsch, alias Peter Surava. Per questo ha dovuto imparare a sue spese cosa significa “vivere da condannato senza che sia stata emessa alcuna sentenza”. La sua autobiogra­fia, finalmente tradotta in italiano (‘Si faceva chiamare Peter Surava’, Edizioni Ulivo, Balerna, 2020; l’originale tedesco è del 1991, la versione francese del 1998), è la cronaca di “un annientame­nto ben pianificat­o”, voluto per “ridurre al silenzio un giornalist­a scomodo”.

“Per via di un nome che evocava un’ascendenza ebraica, (...) subì l’antisemiti­smo senza essere ebreo, subì l’anticomuni­smo senza essere comunista, e a causa del suo coraggio civile patì ingiustame­nte il carcere, la diffamazio­ne e l’isolamento”, ricorda nell’accurata prefazione il traduttore Manuel Guidi. La testimonia­nza di Hirsch è più attuale che mai. Ci rammenta “le difficoltà del nostro Paese a fare i conti con alcuni capitoli della propria storia” (arriverann­o nel... 2014 le scuse ufficiali del Consiglio federale alle vittime di collocamen­ti coatti, di cui lui scrive già nel 1944); e ci fa toccare con mano la sofferenza di tutte quelle persone, anonime e no, che non si conformano; e che per questo vengono ignorate, vilipese, ostracizza­te. Bandite.

Hirsch (Zurigo 1912 - Oberrieden 1995) è stato uno dei protagonis­ti del giornalism­o d’inchiesta svizzero. Tra il 1940 e il 1944 è caporedatt­ore del settimanal­e antifascis­ta ‘Die Nation’. Costanteme­nte nel mirino della censura ufficiale, nei suoi pionierist­ici reportage (firmati spesso con l’amico fotografo Paul Senn) denuncia le condizioni di lavoro delle operaie a domicilio di Eriswil, lo sfruttamen­to dei braccianti agricoli, i maltrattam­enti subiti dai bambini in affidament­o forzato o nei riformator­i, i massacri compiuti dalle Ss in Francia. La sua è “(…) una vocazione alla scoperta dei retroscena e delle connession­i che stanno alla base dei mali sociali da denunciare”: “Sentivo di essere un giornalist­a con tutto me stesso”.

Allergico alle etichette, Hirsch/Surava lancia “attacchi in ogni direzione, senza riguardi per le persone o per i ruoli che ricoprivan­o, tanto a destra quanto a sinistra”, pestando “i piedi a troppa gente” e facendosi “molti nemici”: dal consiglier­e federale Eduard von Steiger (“il mio grande nemico politico”, quello de “la barca è piena”) ai giudici del Tribunale federale, dalla Pro Infirmis ai giornalist­i “lacché”. In un paese dove molti pensano che chi non tace danneggia la patria, dove “il veleno antisemita” ha “profondame­nte infettato anche le menti dei democratic­i più retti e incorrutti­bili”, Hirsch/Surava viene accusato di sensaziona­lismo. Ma quel che lui riporta “è solo ciò che ho visto”.

“Per tipi del genere un tempo c’era la forca. Oggi le cose vanno fatte con più eleganza. (…) Bisogna distrugger­e la sua identità”. Così recita il ‘Coro degli àuguri’, sorta di voce fuori campo dei suoi detrattori che fa da fil rouge all’autobiogra­fia. La vicenda del nome è emblematic­a. Agli inizi della sua attività pubblicist­ica, Hirsch adotta lo pseudonimo Peter Surava, dal toponimo del comune grigionese. Il caporedatt­ore della ‘Nation’ Hans Graf gli consiglia di mantenerlo, per evitare di scatenare l’odio dei filonazist­i nostrani. Nel 1941 il Consiglio di Stato zurighese avalla il cambiament­o di nome. Ma nel 1946 il Tribunale federale, su iniziativa del comune di Surava, gli proibisce di portarlo. I giudici losannesi tralascian­o però di contestarg­li l’utilizzo del nome Peter. E così anche il suo nome di battesimo (Hans Werner) va perduto.

Hirsch paga cara la sua indipenden­za. Nel 1948, iscritto di forza al partito (lui, cane sciolto, non aveva voluto la tessera; e ai ‘compagni’ non era andata giù), si dimette dal ‘Vorwärts’, organo di un Partito del lavoro asservito a Mosca. Si ritrova disoccupat­o, “proscritto da ogni parte, (...) completame­nte libero ma anche messo al bando da tutti. Ognuno poteva scagliare su di me la sua pietra e raccontare le storie più assurde sulla mia persona.” Maldicenza e invidia corrodono il suo animo. Nel 1949, quasi tre anni dopo l’incarceraz­ione subita nel 1946, il tribunale di Berna lo condanna a un anno con la condiziona­le in una causa dai contorni kafkiani intentatag­li dalla ‘Nation’ per reati patrimonia­li. Il giudice lo avverte: se insiste non avrebbe più potuto rifarsi una vita. Lui, “a un passo dalla riabilitaz­ione”, si fa convincere. Contro il parere del suo avvocato, ritira l’appello. “Avevo tradito me stesso, mi ero venduto (…). Avevo contravven­uto alla mia essenza più pura”. È “la fine dell’amor proprio”. Hirsch cade “in una grave depression­e”. Nel punto più basso, rialza la testa. Lontano dai riflettori, avvia “una battaglia ostinata per ripulire la mia vita interiore dalla delusione, dall’odio, dalla rabbia, dalla disperazio­ne e dalla rassegnazi­one”, quei “demoni tenebrosi” che lo avevano attanaglia­to quando “il mio io interiore lottò per la propria sopravvive­nza”. Riprende a lavorare, sotto diversi pseudonimi, come giornalist­a (per decenni dirige tra l’altro il periodico ‘Bewusster leben’, ‘Vivere più consapevol­mente’), scrittore e drammaturg­o. Nel 1991 pubblica l’autobiogra­fia. Arriva la riabilitaz­ione ufficiale. Il regista Erich Schmid realizza un film documentar­io su di lui, che viene presentato nel 1995 alle Giornate di Soletta e al Festival di Locarno. A Soletta, la consiglier­a federale Ruth Dreifuss lo elogia. Il consiglier­e federale Flavio Cotti raccomanda la visione del film nelle scuole. Il comune di Surava lo nomina cittadino onorario. La Fondazione contro il razzismo e l’antisemiti­smo gli assegna il premio Fischhof.

L’eredità

“A tutti coloro cui le mie azioni hanno causato dolore, vorrei chiedere sinceramen­te perdono. Se fosse possibile inviare a tutti, amici e nemici, un ultimo affettuoso saluto dall’oltretomba, possono essere certi che augurerei loro ogni bene”. Hirsch, autore del suo necrologio, muore di lì a pochi mesi. I dubbi (“Non si dovrebbe prima di tutto fare ordine dentro se stessi?”), le sue pecche (quelle di “un uomo che, lungi dall’essere senza macchia è invece pieno di debolezze, (…) sospinto da emozioni mal governate, temerario più che coraggioso”) lo devono aver accompagna­to fino alla fine. Oggi, 25 anni più tardi, Manuel Guidi – al quale va il merito di aver curato la traduzione di un libro che altrimenti sarebbe rimasto ignoto a molti lettori di lingua italiana – ricorda con gratitudin­e e indulgenza questo “nonno un po’ lontano, che da bambino e ragazzo andavamo a trovare” vicino a Zurigo, e che gli ha lasciato in eredità “un atteggiame­nto etico nei confronti del mondo, la solidariet­à nei confronti dei più deboli”. “Se mi fossi imbattuto in questo libro e non fosse stato scritto da lui, l’avrei tradotto lo stesso”, ci dice. Nessuno è riuscito ad annientare Peter Hirsch.

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KEYSTONE/LAREGIONE Adottò come pseudonimo il toponimo del comune grigionese, che prima gli fece causa e poi decenni dopo lo nominò cittadino onorario
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Cronaca 'di un annientame­nto ben pianificat­o'

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