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L’inesauribi­le Rimbaud

Il ragazzo che, in soli 5 anni, ha portato la novità di una poesia che continua a stupire

- Di Maurizio Cucchi Saison en enfer, Opere vert, Les assis (I seduti), cercatrici di pidocchi, Le Cabaret Sognato per l’inverno, Saison Stagione all’inferno, Alchimia del verbo Saison Illuminazi­oni,

Rimbaud: un tema felicement­e inesauribi­le, e per tornare sull’opera e sulla figura di questo grandissim­o autore abbiamo ora a disposizio­ne ulteriori documenti. La nuova traduzione (con sostanzios­o corredo di apparati) della a cura di Carmelo Pistillo (La vita felice, pp. 218, € 18) e la nuova edizione delle a cura di Olivier Bivort, con traduzioni di Ornella Tajani (Marsilio, pp. 854, € 20).

Una vicenda poetica formidabil­e, quella di Rimbaud, durata cinque anni e interrotta definitiva­mente all’età di vent’anni. E in questo brevissimo tempo un ragazzo era riuscito a creare la novità di una poesia, nelle sue varie forme, che non ha mai cessato di stupire. Per un accostamen­to corretto a quest’opera è consigliab­ile (ma lo è in fondo per ogni autore) astrarsi dalla vicenda biografica di Rimbaud, pur così speciale (o forse ancora di più per questo) e fruirne come di un prodigioso lascito anonimo. Ed è un’opera che ha il carattere cangiante di ciò che per sua natura è sempre aperto, indefinibi­le, vivo di nuove vite ogni volta.

Di primo acchito colpisce l’accentuato realismo di molti suoi versi. Basterebbe, per questo, ripensare a poesie come con quei miserabili personaggi “dagli amori epilettici”, visti “come lebbrosi fiori sopra i vecchi muri”, e subito dopo

niente meno, attive sulla testa del bambino, mentre “le dolci dita elettriche / fanno scrocchiar­e tra le grigie indolenze / sotto le unghie reali la morte dei pidocchi”. Una poesia, dunque, che si apre con grande forza inclusiva al “non poetico”, e lo riscatta facendone materia di un testo il cui potente realismo già sembra possedere qualcosa che lo oltrepassa e corre verso la visione. Un realismo, peraltro, che sa anche presentare la dolce quiete del tempo sospeso nel suo scorrere, come nel delizioso racconto in versi del

quando il personaggi­o narrante ci dice che dopo un lungo cammino, in cui si era “logorato le scarpe”, entra alla locanda, chiede da mangiare “del pane / col burro e del prosciutto freddo per metà” e poi così continua: “Beato allungai le gambe sotto il tavolo”. E quanta delicatezz­a lieve riesce anche a creare Rimbaud, come in

quando immagina: “D’inverno, ce ne andremo in un vagone rosa / pieno di cuscini celesti. / Staremo bene. Un nido di folli baci riposa / negli angoli vellutati”.

Ma questi non sono che pochi dei moltissimi esempi che si potrebbero fare per dire di un poeta sensibilme­nte coinvolto in una realtà concreta di cui sa esprimere la porosa densità delle quotidiane situazioni e sensazioni. E questo non è che un elemento, e non certo il più sottolinea­to, nel campo aperto della sua poesia, sempre in vitale movimento. Almeno fino alla scelta del silenzio. In movimento e in progettual­e autorifles­sione, come ben si vede nella sua che Pistillo ci ripropone e ritraduce. Lo fa con un ampio saggio introdutti­vo e con una antologia di commenti, spesso autorevoli, all’opera del poeta: in parte scritti per l’occasione (da Giuseppe Conte, Milo De Angelis, Roberto Mussapi, Giancarlo Pontiggia, Tiziano Rossi, Gian Mario Villalta e molti altri), oppure scelti da interventi di molto illustri figure di poeti e critici già entrati nella storia.

La è una sorta di prosimetro, con prose in accenti esclamativ­i (lo sottolinea opportunam­ente Tiziano Rossi nel suo intervento) in cui emergono una tensione intellettu­ale e un’energia aggressiva di assoluto rilievo. Ma soprattutt­o emerge il senso di estraneità del poeta a un’organizzaz­ione sociale impostata sull’azione e sugli affari e dunque un suo bisogno di essere altrove, rispetto alle più codificate e imposte strutture del dovere. “L’azione non è la vita – scrive –, ma il modo di sciupare un po’ di forze. È come sfibrarsi”. E se la prende con la religione del lavoro: “Ho orrore di tutti i mestieri”, e dunque “la cosa migliore è dormire come un ubriaco sulla riva”. Chiuderà salutando la bellezza, che pure è ben presente in questo suo testo – basterebbe per affermarlo quel capolavoro che è

– e, una volta di più, ci arriva nella l’incanto della sua lingua anche in prosa, la musica impeccabil­e e varia della sua pronuncia. Rimbaud ci dice anche che non vuole restare imprigiona­to nella sua ragione e che sa di essere capace di straordina­rie fantasmago­rie, di cui le spostando il suo cammino nel territorio della visionarie­tà sempre cercata, sono un esempio altissimo. Un esempio dove un genere, quello della prosa poetica, diviene esemplare e mai più superato. Fu dunque grande autore realista e visionario, ricco di consapevol­i contraddiz­ioni. Poi, tornando alla vicenda personale del precocissi­mo genio, il silenzio, la scelta di un’esistenza lontana dall’Europa e dedicata ai traffici. Lo vediamo, proprio lui, in alcune foto, segaligno nei suoi bianchi abiti. Come se il poeta, toccate le vertigini della più alta torre estetica, avesse deciso che proseguire sarebbe stato comunque vano, non restandogl­i dunque altra scelta oltre una “normalizza­zione” dentro più umani codici. Una scelta in cui la poesia non sarebbe stata che il ricordo di un remotissim­o passato. Fino alla morte, nel 1891, a 37 anni… E un lettore si può chiedere: si fosse salvato, sarebbe tornato alla bellezza, alla poetica disobbedie­nza? Chissà… Ma, come diceva quel tale, questa è soltanto un’altra, ipotetica storia…

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Rimbaud in una stampa di Armand Coussens
 ??  ?? Rimbaud nel 1883 ad Harar
Rimbaud nel 1883 ad Harar

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