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Schiavi nei campi, confinati in casa

Davide Fiatti (sindacalis­ta): bisogna regolarizz­are sia i migranti sia i contratti di lavoro

- di Lorenzo Erroi

Mentre il coronaviru­s minaccia il lavoro agricolo e mezz’Europa si preoccupa – spesso esagerando – di avere ancora verdura nel piatto, vien da pensare a quelli che normalment­e gliela raccolgono. Se si guarda a certe realtà italiane, c’è di che farsi passare l’appetito: abbiamo tutti in mente le immagini dei furgoncini stipati di schiavi africani, i ‘caporali’ che fanno da intermedia­ri tra latifondis­ti e manodopera col beneplacit­o delle mafie, le baraccopol­i, i tentativi di pulizia etnica in posti come Rosarno, vicino a Reggio Calabria. Ora che il coronaviru­s ha bloccato gli spostament­i sul territorio lo sfruttamen­to resta come congelato, ma i problemi rimangono, anzi. Ne parliamo con Davide Fiatti, segretario nazionale della Federazion­e lavoratori agroindust­ria del sindacato Cgil.

Fiatti, secondo il vostro Osservator­io – intitolato alla memoria della vittima di mafia Placido Rizzotto – il tasso di irregolari­tà dei rapporti di lavoro nell’agricoltur­a italiana è del 39%: parliamo di oltre 400mila persone. Probabilme­nte, però, non tutte le situazioni sono paragonabi­li a quelle che riempiono le pagine di cronaca nera.

Ci sono diverse forme di sfruttamen­to. C’è chi beneficia di un contratto apparentem­ente regolare, ma deve fare più ore o restituire al datore di lavoro una parte del salario: si tratta anche di molti italiani e di stranieri provenient­i dall’Unione europea, in particolar­e Bulgaria e Romania. Poi c’è il lavoro nero vero e proprio, anche col sistema dei ‘caporali’ – spesso della stessa nazionalit­à degli sfruttati, ma controllat­i dalle mafie locali – che arrivano a garantire ‘braccia’ per tre o quattro euro l’ora, contro i circa 9 euro medi dei contratti regolari, e magari esigono anche una parte di quella cifra per portare i lavoratori nei campi e dar loro un panino e un po’ d’acqua. Particolar­mente vulnerabil­i e ricattabil­i sono i migranti senza permesso di soggiorno.

Le loro storie sono tra quelle dei 67mila – a fronte di oltre 400mila stranieri regolari e ‘irregolari’ nell’agricoltur­a – che hanno un “rapporto di lavoro informale”. Ovvero senza diritti. Come attraversa­no l’emergenza?

Parliamo di persone che vivono in ghetti, baraccopol­i, casolari abbandonat­i, locali angusti. Da un punto di vista sanitario, si tratta di una bomba a orologeria. Alla promiscuit­à e alle condizioni igieniche precarie si aggiunge il fatto che la legge italiana criminaliz­za chi non ha un permesso di soggiorno, che quindi è scoraggiat­o dal recarsi in ospedali nei quali a volte c’è perfino un posto di polizia ad attenderli. Tutto quello in cui possono sperare è il fatto che per ora al sud – dove se ne concentra la maggior parte – la situazione epidemica sembra meno grave che al nord. E che ci sono comunque organizzaz­ioni come Emergency e Medici senza frontiere che offrono loro un supporto sanitario di base.

Quali sono i problemi di convivenza con la popolazion­e ‘locale’?

Si rischiano anche focolai di scontro sociale tra migranti e cittadini italiani, che già in molti casi mal sopportano la presenza di ghetti e situazioni di degrado. Soprattutt­o in regioni come la Calabria e la Puglia – dove la presenza è molto forte e più concentrat­a nelle baraccopol­i che in Campania

e in Sicilia – c’è il pericolo che eventuali emergenze sanitarie possano scatenare una caccia all’untore.

Possono lavorare?

No, non possono spostarsi per recarsi nei campi. È chiaro che questo avrà un impatto sui raccolti: non ora ma fra una quindicina di giorni, quando inizierann­o le raccolte più grandi. E non sarà facile sostituirl­i con disoccupat­i o altro personale. A questa carenza si aggiunge quella di chi viene dall’Est Europa, ha un permesso ma talora vive in condizioni solo marginalme­nte migliori. L’Unione europea ha istituito ‘corridoi verdi’ per permettere a queste persone di raggiunger­e i datori di lavoro, è vero. Ma è anche vero che questa stessa agevolazio­ne spinge bulgari e rumeni a preferire la Germania, dove le paghe sono più alte. È possibile aspettarsi una carenza di manodopera fino al 25 per cento.

C’è chi sostiene che allora si potrebbero impiegare gli italiani.

Non è così facile. Intanto non si può costringer­e nessuno a fare un lavoro, neanche i disoccupat­i. Poi, nei casi più estremi, è evidente che nessuno sarebbe disposto a sottostare alle stesse condizioni di questi migranti.

Qual è l’auspicio dei sindacati?

Si tratta di intervenir­e contempora­neamente su due livelli di regolarizz­azione: quello dei migranti e quello dei contratti di lavoro. Nel primo caso occorre urgentemen­te superare una legge come la Bossi-Fini, che criminaliz­za l’immigrazio­ne. Poi però bisogna anche fare riemergere dall’illegalità i rapporti di lavoro. Oggi, anche un datore di lavoro onesto rischia di vedersi incentivat­o a rivolgersi al lavoro nero e ai caporali: in assenza di uno Stato che fornisca un luogo d’incontro tra domanda e offerta e in caso di fabbisogno urgente – com’è nella natura di un settore dominato dalla stagionali­tà e dal meteo –, può essere tentato di rivolgersi a chi garantisce braccia ‘chiavi in mano’, senza doversi preoccupar­e di contratti, trasporti e a volte neppure della gestione dei pagamenti. Lo stesso vale per i molti lavoratori che non sanno a chi rivolgersi per trovare regolarmen­te lavoro. Per questo bisognereb­be ricostitui­re piattaform­e pubbliche – anche digitali – che permettano un incontro immediato tra domanda e offerta di lavoro nella piena legalità.

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INFOGRAFIC­A LAREGIONE/DATI OSSERVATOR­IO PLACIDO RIZZOTTO, FLAI-CGIL

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