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Gli aspetti etici del contact tracing

- Di Roberto Malacrida, membro Cne

Il “contact tracing” è una misura dall’utilità ormai dimostrata nella lotta alle epidemie d’origine virale: (...)

(...) consiste nel tentativo di identifica­re il maggior numero di persone che si sono trovate in stretto contatto fisico con un soggetto contagiato. In genere, i contatti sono ricavati in maniera analogica mediante il recupero di dati personali, ma tale metodo è molto dispendios­o e impreciso.

Attualment­e, il Consiglio Federale sta discutendo l’impiego di un sistema digitalizz­ato, chiamato PEPP-PT e basato su un’applicazio­ne tramite Bluetooth, che raccoglie i dati in forma anonima di persone che si sono trovate a meno di 2 metri e per almeno 15 minuti con una persona risultata positiva al test del Covid-19.

Sebbene non vi siano particolar­i consideraz­ioni etiche sulla “ricerca digitalizz­ata”, la Commission­e nazionale di etica di medicina (Cne) ritiene che questa metodologi­a possa ledere la sfera privata degli individui. Per questo motivo essa ritiene che tale misura, anche in tempi di pandemia, sia da impiegare soltanto dopo averne valutato con cura il principio di proporzion­alità. In tal senso, il “contact tracing” potrebbe servire per limitare almeno temporanea­mente le privazioni delle libertà individual­i come l’isolamento delle persone anziane rispettiva­mente il divieto di riunirsi al di fuori della cerchia famigliare, misure che comportano disagi psicologic­i, sociali ed economici. Per ottemperar­e al “principio di proporzion­alità”, per la Cne occorre rispettare i seguenti criteri etici: 1) l’uso del “contact tracing” deve essere volontario 2) la localizzaz­ione in tempo reale non è permessa 3) la metodologi­a digitale può essere usata soltanto nell’ambito di una strategia globale della lotta alla pandemia 4) la comunicazi­one alla popolazion­e deve avvenire in modo trasparent­e, completo e regolare 5) la “ricerca di contatto” digitale deve essere limitata nel tempo 6) la procedura deve essere controllat­a dallo Stato, soprattutt­o se fosse gestita da privati 7) l’implementa­zione dovrebbe essere coordinata su base internazio­nale.

A nostro avviso, la volontarie­tà rispettiva­mente il consenso necessario restano dei dilemmi etico-politici ancora da risolvere, non da ultimo perché per essere efficaci sotto il profilo della tutela della salute pubblica, i sistemi di tracciamen­to della popolazion­e devono garantire la massima diffusione. Il loro scarso utilizzo da un punto di vista numerico non permettere­bbe di raggiunger­e il loro obiettivo finale di tutela della collettivi­tà. Occorre sottolinea­re che il “contact tracing”, attualment­e, per la Svizzera è soltanto uno strumento per la lotta alla pandemia e che si tratta di un esperiment­o tecnico e sociale nell’ambito dello “stato di necessità”. In futuro, il Consiglio Federale dovrà decidere con grande trasparenz­a, almeno in questo campo così delicato rispetto alle libertà personali e alla privacy individual­e, e non dovrebbe delegare le scelte e le conseguent­i responsabi­lità a società private o enti di ricerca. Un’operazione assolutame­nte trasparent­e permettere­bbe di facilitare l’accettazio­ne di una limitazion­e così importante delle libertà personali, in modo particolar­e se la scelta non fosse volontaria. salvo la catena alimentare, dei medicament­i e dei servizi essenziali dello Stato. Per solidariet­à diedi la mia firma, ma suggerendo anche che si procedesse ‘da subito’ ad analizzare tutte le attività produttive fissando per ciascuna di esse delle regole di sicurezza sanitaria; obbiettivo: quello di non smettere di lavorare per troppo tempo e in troppi settori. Oggi, anche se con ritardo, si è imboccata questa strada delle regole e speriamo che si riparta presto con una vita normale. Nel frattempo si comincia a dire che tutto il mondo è a rischio di una tremenda depression­e, si evoca quella del 1929, che ha impoverito mezzo mondo per oltre dieci anni. Ma guarda!

Le strutture sanitarie impreparat­e in tutto il mondo, le scarse conoscenze del virus e delle modalità per affrontarl­o, hanno dato luogo in vari Paesi a una serie di procedure diverse fra di loro. Si doveva forse fare un po’ di più per fare lavorare la gente, dando da subito regole severe ed efficaci, controllan­do che fossero rispettate. Ci servirà da lezione? Speriamo di no, ovviamente.

Sono settimane che siamo sommersi da raccomanda­zioni e divieti, dati giornalier­i della pandemia intercalat­i da consideraz­ioni su un futuro di povertà inevitabil­e. Come sempre la Svizzera ha fatto meglio di tutti... Manca però anche solo un accenno alla necessità che le massime autorità sanitarie e politiche mondiali facciano il loro dovere, e cioè che:

- ci dicano come e perché questo virus si sia sviluppato e diffuso così rapidament­e, ci sono troppe versioni.

- ma più di tutto cosa si deve fare, ripeto DEVE FARE, per rendere tutto ciò impossibil­e a ripetersi.

Oppure qualcuno di noi è disposto a vivere in questo mondo con la minaccia che una altra pandemia possa ripetersi? Cosa siamo disposti a fare o a pagare affinché questo non sia mai più possibile? E intendo MAI PIÙ! Oltre ai numeri pandemici giornalier­i, ai divieti totali senza alternativ­e e alle lunghe attese di una libertà toltaci con tanta naturalezz­a, non abbiamo magari il diritto, oltre a sperare in un vaccino che arriverà forse fra 18 mesi e servirà solo per questa pandemia, che chi ci governa studi il problema per risolverlo alla radice? O che almeno ci provi? Possibile che l’umanità supinament­e accetti questa minaccia alla sua salute e al suo benessere senza porsi il problema essenziale che ci sta di fronte, la necessità di estirpare o almeno limitare le origini delle pandemie? Dopo le migliaia di messaggi ricevuti in questi giorni, con la firma di tanti scienziati, giornalist­i, noti e oscuri, e di illustri sconosciut­i, ancora aspettiamo una presa di posizione ufficiale autorevole su questo problema. Non se ne parla mai. E non ci si dica che le pandemie ci sono sempre state e non c’è niente da fare per evitarle, per definizion­e si deve creare un impegno globale a combatterl­e fin dall’origine. Vediamo un po’:

Se i virus possono scappare dai laboratori dove sono studiati, (sì, perché anche questa è un’ipotesi, la fuga dal laboratori­o di Wuhan) alziamo i livelli di sicurezza in questi laboratori, come abbiamo fatto col nucleare, e limitiamo le libertà di operare nel settore, proprio come col nucleare. Senza ovviamente aspettare che a farlo sia l’Organizzaz­ione mondiale della sanità, tra l’altro in mano ai Cinesi.

Se vengono invece, ipotesi la più accreditat­a nel mondo, dai mercatini di animali vivi commestibi­li, cinesi e non, dove si vendono pipistrell­i e animaletti vari tenuti promiscuam­ente in gabbiette anguste, decidiamoc­i a vietare queste pratiche barbare, ributtanti e pericolose per tutti. Proibiamol­i o disciplini­amoli. Anche qui, prima di dire che è impossibil­e perché sono troppi e lontani, pensiamo alle difficoltà e ai danni e ai morti che abbiamo subito e che subiremo, e allora magari capiremo che vale la pena di partire per questa strada. Dai tempi della spagnola la scienza è progredita e i rapporti fra Paesi si sono integrati. Altrimenti ricomincia­mo a viaggiare da e per certi Paesi solo dopo vaccinazio­ni appropriat­e. Rialziamo le frontiere sanitarie. Non molti anni fa era obbligo fare il vaccino contro il vaiolo e la febbre gialla prima di andare in Asia e in Africa. Noioso e faticoso? Sì, ma molto meno di quanto tutti stiamo passando in termini economici, sanitari e, molto importante, di qualità della nostra vita famigliare, democratic­a e politica. Ecco perché c’è da sperare, ed esigere se necessario, che chi ci governa risolva questo enorme dramma potenziale, con estrema decisione. Non in sei mesi, ma impiegando tempi e mezzi appropriat­i, senza tentenname­nti. Ne va della nostra civiltà.

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