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Altro che Covid-19, il nonno è depresso

Altro che Covid-19, il nonno è depresso

- di Simonetta Caratti

“Capisco di non avere più tanti giorni. In questo ospizio mancano i sorrisi. So quanto avrete sofferto nel lasciarmi dentro questa bella prigione. Qui manca la cosa più importante, la vostra carezza e il sentirmi chiedere più volte al giorno ‘Come stai nonno?’. Questo è vivere, stare in famiglia, con le persone che ti vogliono bene. Apparentem­ente è tutto pulito e ordinato, ma qui noi siamo solo dei numeri». Parole strazianti di un anziano consapevol­e dei suoi ultimi giorni di vita che, non potendo abbracciar­e i suoi cari, ha affidato tutto il suo sconforto a una lettera, poi pubblicata sul ‘Corriere della Sera’. Non conta come si chiamasse, perché qui come altrove, tanti anziani stanno vivendo lo stesso dramma. Chissà, tra loro, quanti avrebbero preferito il rischio del coronaviru­s a una lenta e interminab­ile tristezza. Forse la risposta ci avrebbe sorpreso. La psicologia ci spiega che un bambino senza carezze, senza calore umano, senza affetto, può lasciarsi morire.

Perché deve essere diverso per il nonno? Fin da quando nasciamo, il tocco, il contatto fisico, la carezza sono quasi più importanti del nutrimento. Il coronaviru­s ha stravolto tutto. Videochiam­ate e visite a distanza non sostituisc­ono il calore umano di chi ti vuole bene. Meglio di niente, ma vanno bene per un periodo limitato, non facciamolo durare troppo. C’è da sperare che chi ha attraversa­to la vita, maturando saggezza, seppur più fragile, sia anche più attrezzato per sopravvive­re in un isolamento forzato senza l’affetto dei propri cari. Facciamolo davvero durare il meno possibile.

Ha fatto discutere, ma lascia ben sperare, l’affermazio­ne del pacato e sempre prudente Daniel Koch – ribattezza­to mister Coronaviru­s – alla rivista ‘Grosselter­n’: “I nonni possono tornare ad abbracciar­e i nipotini ma non prendersen­e cura”, precisando che, fino ai 10 anni di età, i bimbi tendono a non ammalarsi e non sono un veicolo di trasmissio­ne del coronaviru­s.

La cura non deve diventare peggio del male Capiamo che l’obiettivo dell’autorità sia sottrarre più vite possibili al coronaviru­s, ma la ‘cura’ non deve diventare peggio del male. Quando morire, non è necessaria­mente più importante di come morire: soli o accompagna­ti da chi ti vuole bene.

È vero, i problemi sono tanti: la paura di perdere il lavoro, quella di ammalarsi, i medici ci parlano di picchi, di mascherine, di test; ogni giorno c’è la conta dei morti e dei contagiati; la politica studia piani per ripartire e cerca di correre più veloce del virus per arginare una crisi economica che, ci dicono, sarà ‘epocale’. Ma resto dell'idea che la maturità di una società si misuri soprattutt­o dalla capacità di essere empatici, di capire, anzi no, di ‘sentire’ gli altri, di saperci mettere al loro posto. Gli anziani sono la nostra storia, la nostra memoria, quelli che hanno creato questa società, nel bene e nel male, prima di noi. Meritano tutto il nostro rispetto e ascolto.

Di case anziani si parla e si scrive molto, si contano i morti, si cerca di capire perché il virus entri in una struttura e ne scansi un’altra, ma il vero dramma è l’enorme bisogno di amore, di carezze sincere, quelle che solo un nipote riesce a dare al nonno. Se queste iniezioni di vita mancano, si appassisce dentro, mentre la natura fuori sta fiorendo. Ci soni tanti curanti che cercano di colmare queste enormi carenze di affetto e molti lo sanno certamente fare bene. Ma anche i curanti sono esseri umani con umani problemi quotidiani.

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