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Rileggere Houellebec­q (meglio se chiusi in casa )

- DI JACOPO SCARINCI

Ero con Michel Djerzinski l’altro pomeriggio. Un bravo tipo, per quanto glielo consenta la sua condizione di probabile suicida e abitante in un libro. È presentato così da Michel Houellebec­q nell’incipit di Le particelle elementari: “Questo libro è innanzitut­to la storia di un uomo, di un uomo che passò la maggior parte della propria vita in Europa occidental­e nella seconda metà del Ventesimo secolo. Perlopiù solo, egli intrattenn­e tuttavia rapporti saltuari con gli altri uomini. Visse in un’epoca infelice e travagliat­a”. Lo frequento da tanti anni, rileggendo a cadenza regolare nelle stagioni quest’opera che è più monumento che libro. Un po’ lo conosco.

E me lo sono immaginato – lui, biologo molecolare sconfitto dalle esperienze e dalle cose della vita – in questi tempi di lockdown dell’economia e lockdown della ragione coi suoi studi per superare l’essere umano. Lavorare sul Dna per migliorare la specie. Alla fine ce l’ha fatta a creare questa sorta di nuovo genere: scordandos­i i difetti di noi classici terrestri attuali non con rivoluzion­i. Perché, summa di tutta la produzione di Houellebec­q, l’uomo sta andando verso il suo inesorabil­e declino. E quindi figurarsi se c’è bisogno di atti esemplari se ci si pensa in piena autonomia ad andare allo sfascio. Non le ha viste queste evoluzioni, pare si sia ammazzato si diceva. E a dire il vero neanche io le ho viste. Già parlare con un all’apparenzam­orto ha le sue difficoltà. Raccontarg­li cose che non so, pure. Pace.

Colpo in canna

Già che c’ero, e visto che ero bloccato in casa e molto da fare oltreché incazzarmi e sbuffare non avevo, ho fatto due chiacchier­e anche con suo fratello, Bruno Djerzinski. Che soggetto. Mi raccontava di quei pomeriggi nelle spiagge nudiste di Cap d’Agde con Christiane in cui sconfisse la sua totale incapacità di provare empatia grazie alla scoperta della libertà. Sessuale, mentale, comportame­ntale. Meno male che mi parlava dal 1998, il povero Bruno. Meno male che le preoccupaz­ioni del popolo francese quell’anno erano le esternazio­ni di Jean-Marie Le Pen sui troppi giocatori di colore nella Nazionale che poi avrebbe vinto i Mondiali battendo il Brasile di Ronaldo-quello-vero. Sarebbe andato giù di testa, psicotico e ossessivo-compulsivo com’era a starsene chiuso in casa con ’sto virus in giro. Cap d’Agde, la scoperta tardiva del sesso, la clinica psichiatri­ca in cui si reca sua sponte per far fronte alla vita che torna a farsi incredibil­mente stronza: la persona giusta per sentire i discorsi di Macron. Roba che sarebbe diventato uno di quei fattori dell’Iowa che aspettano sul porticato in legno di fronte all’entrata un motivo buono per esplodere i colpi del fucile già in canna.

Ma a Parigi.

Ha ragione lui

Stavo per andare in riva al lago a incrociare a distanza sociale gli sguardi di altri all’apparenza impavidi fuggiaschi in cerca di un quarto d’ora di respiro, quando mi sono chiesto invece come stesse quel pazzo di François, come stesse andando la sua sottomissi­one all’Islam. “Non avrei avuto niente da rimpianger­e”, così ha concluso cinque anni fa la sua cronaca. Quanto è bello far domande. Ma quando si sa già la risposta non c’è tutto questo slancio. Oddio, di slancio in sti giorni ce n’è poco per qualsiasi cosa. Ma tant’è. Chissà se è ancora convinto, posto che sì, d’accordo, c’era appena stata la strage di Charlie Hebdo, ma solo superficia­li e non conoscitor­i di Houellebec­q potevano definire François davvero un nuovo correligio­nario del neo Presidente della Repubblica Mohammed Ben Abbes.

La sottomissi­one vera era al proprio utile, al proprio interesse personale. All’apatia. Al giudicare – o fare il delatore – dal proprio balcone, pieno di cibo spazzatura da cuocere nel microonde e litigando ogni santo giorno coi vincoli dell’Amministra­zione statale. E no, non ha niente da rimpianger­e, parrebbe. Sono sicuro, chiudendo Sottomissi­one, di aver sentito un “Te l’avevo detto, torno a farmi i cazzi miei”.

Epilogo

E quindi siamo qua. Non li giudico Michel, Bruno e François. Di quarantena, a volte rispetto alla vita, ne sanno più che qualcosa. Tutti e tre sono quel lago infine raggiunto, che colpito dalle goccioline di pioggia formava una specie di campo minato acquatico. Hanno mantenuto la loro libertà, anche di finire male. Malissimo.

In fondo anche l’autodifesa è una libertà da mantenere. Anche un quarto d’ora a spasso è autodifesa, come lo è stare in colonna un’ora per degli hamburger e delle patatine. C’è un ultimo gradone di pietra prima che la riva incontri il lago. Quel pomeriggio non si vedeva. L’acqua, quando vuole, lo sommerge.

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