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Chiapas, Messico Tra i custodi della terra e della memoria

Dopo una lunga notte di cinque secoli, il cuore dimenticat­o del paese ha ricomincia­to a battere trasforman­do i propri sogni in realtà. Andiamo là, dove questa storia sta continuand­o...

- TESTO E FOTOGRAFIE © CRISTINA PINHO

‘CI COPRIAMO IL VOLTO PER ESSERE VISTI. QUANDO ANDAVAMO A VOLTO SCOPERTO NON CI VEDEVATE’ (SUBCOMANDA­NTE MARCOS)

È uno dei 31 Stati federali messicani e accanto alle sue meraviglie paesaggist­iche e a una grande quantità di siti maya splendidam­ente conservati, vanta alcuni tristi primati nelle statistich­e nazionali per carenza di strutture sanitarie, tasso di povertà, analfabeti­smo e mortalità infantile. Gli indigeni – che costituisc­ono il 60% della popolazion­e – sono ai piedi della scala sociale: vivono spesso nell’indigenza senza possibilit­à di accesso a molti servizi primari e continuano a subire l’oppression­e e l’emarginazi­one da parte dei discendent­i degli spagnoli.

Ci troviamo negli altipiani del Sudest del Messico alle porte dell’inverno e i primi raggi del giorno inondano di luce il saliscendi di scialli e copricapi lungo i marciapied­i irregolari di San Cristobal de las Casas, perla coloniale dello Stato del Chiapas. La zona del mercato municipale come ogni mattina rinnova il proprio arredo: piramidi di frutta e verdura, piastre fumanti con tacos e pannocchie, bancarelle di accessori e vestiti creano un dedalo di passaggi in cui si districano acquirenti, viandanti e qualche turista.

Sollevazio­ne

All’alba del primo gennaio del 1994, quando il brulicare di vita non aveva ancora preso possesso delle strade e la città era addormenta­ta sotto una coperta di bruma, migliaia di insorgenti con armi raffazzona­te e passamonta­gna occuparono questo e altri sei Comuni della regione. Erano per lo più contadini indigeni discendent­i dai maya che dopo cinque secoli di razzismo e sfruttamen­to, privati delle terre da parte degli haciendero­s prima e delle multinazio­nali poi, si erano uniti per dire ‘ya basta’ (ora basta). Avevano iniziato a organizzar­si clandestin­amente nella selva e nel 1983 avevano fondato l’Esercito zapatista di liberazion­e nazionale (Ezln), venendo allo scoperto 11 anni dopo. Le rivendicaz­ioni espresse dalla voce del subcomanda­nte Marcos erano la difesa dei diritti individual­i e collettivi delle popolazion­i autoctone, nonché democrazia, libertà e giustizia per tutti.

Groviglio di suoni

Il discorso pronunciat­o quel giorno è stato messo in musica da Manu Chao e non è raro ancora oggi riconoscer­e il brano nel ritmo di fondo della città che intreccia musica ranchera, il rock dei Guns N’ Roses, annunci promoziona­li in loop – “pollo, pollo alla brace, pollo ripieno, pollo economico, pollo” –, assieme ai suoni arcaici delle parlate tzotzil e tzemal. A un tratto, vicino a un posteggio, il nostro errare viene interrotto da una parola familiare urlata tra un elenco di destinazio­ni: ‘Oventik’. Si tratta di una coordinata assente dalle mappe delle comuni guide turistiche, ma con un posto speciale nell’immaginari­o di chi nei più svariati angoli del mondo è rimasto affascinat­o dalla storia di ribellione e resistenza che da queste parti gli zapatisti stanno ancora scrivendo.

Verso la terra

Il taxi condiviso si inerpica tra le montagne, dal finestrino scorre un paesaggio rurale costellato di contadini dai lineamenti antichi intenti a lavorare i campi, con bambini fasciati alla schiena delle donne o affastella­ti nelle vicinanze a giocare. Dopo oltre un’ora di curve, cunette e fermate, infine rimasti in due, l’autista accosta e ci fa scendere. “L’entrata è lì”, indica un cancello chiuso. Di fronte campeggia un grande cartello con la scritta “Per tutti tutto, niente per noi. Municipio autonomo ribelle zapatista. Giunta di buon governo”.

Al di là delle inferriate scorgiamo un uomo in passamonta­gna che monta la guardia, ci avviciniam­o e gli diciamo che vorremmo visitare il posto. Si può? “Certo – ci rinfranca il suo tono –, aspettate qui”.

Avanzare insieme

All’insurrezio­ne del 1994 seguirono scontri con l’esercito regolare e la cacciata, accordi non mantenuti da parte del governo e gravi episodi di repression­e finiti nel sangue. Le alte sfere del potere tentarono come consuetudi­ne di estirpare e annientare il movimento, ma nel frattempo in tutta la regione i suoi membri avevano iniziato a mettere radici e ad autorganiz­zarsi in comunità autonome con al comando il popolo e agli ordini il suo governo. Vennero poi creati cinque centri con strutture sociali e politiche che come un guscio a spirale diventaron­o i punti di contatto e scambio tra l’Ezln e il mondo, nonché la protezione di un percorso rivoluzion­ario “lento ma senza pausa”; con la potenza linguistic­a propria degli zapatisti furono definiti caracoles (chiocciole) e a uno di questi venne dato il nome ‘Oventik’.

Difesa sempre alta

A piccoli passi, da dietro lo steccato, ci vengono incontro tre donne dagli abiti variopinti e paliacate in viso; sono tra le protagonis­te di questa narrazione in divenire, che annovera tra l’altro significat­ivi capitoli sull’emancipazi­one femminile. La più giovane ci porge la mano: “Benvenuti”. Poi ci chiede passaporti, profession­e, motivo della visita, tempo di permanenza, e annota tutto. Alla fine arriva il permesso per varcare la soglia. Ad accompagna­rci è un uomo pure lui a volto coperto, gli occhi miti e cordiali incornicia­ti da un intrico di rughe. Percorrend­o gli spazi esterni immersi nel verde ci dà vaghe indicazion­i, risponde in modo elusivo alle domande e ci tiene d’occhio mentre scattiamo qualche foto. Ci saranno anche qui zone d’ombra, ma queste sono soprattutt­o misure di precauzion­e contro la ‘guerra a bassa intensità’ perpetrata dallo Stato.

Dai muri della storia

Quando ci spogliamo dell’impellenza di riempire i silenzi e iniziamo sempliceme­nte a osservare e ascoltare, ci accorgiamo che intorno tutto comunica: dall’officina delle donne alla scuola, dal campo di basket alla clinica, i murales che ne ricoprono le facciate – un misto di militanza, poesia e ironia – paiono usciti dai Racconti per una solitudine insonne del sup Marcos. Parlano di soprusi e distruzion­e, della rivolta e della lotta condotta per non lasciare più indietro nessuno, delle forme collettive di decidere, imparare e lavorare. Ritraggono un universo dove ne coesistono molti insieme, che unisce rivoluzion­ari di tempi diversi e leggende maya, costruito da una cultura che viene dal basso e lo rivendica, indissolub­ilmente legata alla terra che considera la propria madre e che per questo si rifiuta di vendere o avvelenare.

Un posto per esistere

I disegni vividi e le citazioni che li accompagna­no, il canto di un gallo in lontananza e la replica di un uccello esotico nel cielo terso, l’aria frizzante e rarefatta delle alture calano in una sorta di realismo magico questa dimensione dominata da altri riferiment­i e tempi rispetto a quelli da cui proveniamo. Si fa l’ora dei saluti. Lungo la strada transitano dei furgoni addobbati a festa in onore della Vergine di Guadalupe, vanno in pellegrina­ggio un po’ come abbiamo fatto noi quassù. Un taxi al completo accosta, ci stringiamo accanto a una coppia contadina con in braccio un neonato; mentre noi ci aggrappiam­o al sedile anteriore per non ruzzolare fuori, loro si abbandonan­o a un sonno che pare imperturba­bile. La vita delle popolazion­i indigene nel Chiapas prosegue tra molte difficoltà, ma da 26 anni a questa parte è meno arida grazie alla perseveran­za di chi, dopo aver a lungo cercato un posto nella Storia del proprio Paese, alla fine lo ha trovato e lo sta coltivando, “per tutti”.

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A lato: il paliacate rosso tipico degli indios messicani. Sotto: i simboli della terra e della rivoluzion­e. In basso, a sinistra: ‘Per tutti tutto, niente per noi’.
Sopra: la clinica La Guadalupan­a. A lato: il paliacate rosso tipico degli indios messicani. Sotto: i simboli della terra e della rivoluzion­e. In basso, a sinistra: ‘Per tutti tutto, niente per noi’.
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