laRegione

Siamo in allerta da troppo tempo

- Di Simonetta Caratti

C’è chi lo nega, fa finta che non esiste. Un esempio è Donald Trump. All’inizio il Covid-19 era una semplice influenza, qualche settimana fa lo voleva sconfigger­e con iniezioni di disinfetta­nte, ultimament­e ha deciso che l’economia deve ripartire anche a costo di migliaia di morti. Il Covid-19 non si vede, ma esiste. Alcuni lo rimuovono, sperando che così scompaia per magia. Altri invece, ora che si riparte, si sentono persi, non uscirebber­o più dal nido sicuro, che è diventata la loro casa. Questo virus ci è entrato nella testa, popola i sogni, ci obbliga a convivere con un costate fastidioso stato di allerta interno e ciascuno reagisce a modo suo. In poche settimane ci siamo abituati all’impensabil­e: far la spesa a turno, rinunciare al funerale di un caro, vedere stadi e scuole chiusi, voli cancellati dalla sera alla mattina, frontiere sbarrate, mobilità ridotta a zero, nuove App che tracciano i nostri spostament­i, lavoro da casa per chi ce l’ha ancora. Oggi si torna ad una parvenza di normalità, anche se il virus è sempre pronto a infettarci e passare al prossimo. I cambiament­i sono stati veloci, per alcuni troppo frettolosi. Solo un mese fa, entrare in un supermerca­to era quasi surreale, lunghe code fuori, dentro tutti si muovevano in silenzio tra sguardi intimoriti, sorrisi spenti da ampie mascherine. Una settimana fa Berna ha deciso di allentare le misure e c’è stato un generale ‘liberi tutti’. Mentre i reparti Covid-19 in Ticino erano ancora pieni, fuori la vigilanza già calava. Mi sono stupita, qualche giorno fa, di vedere in un supermerca­to che pochi avevano la mascherina, malgrado la difficoltà di tenere le distanze. Mentre sceglievo delle mele, c’era chi mi arrivava frettolosa­mente da destra e da sinistra, noncuranti delle distanze da tenere, anche alla cassa. ‘Quanto egoismo! Quante persone devono ancora morire...’. È stato il primo pensiero, ma forse la questione è più complicata. Per alcuni ‘rimuovere’ il problema Covid19 è una sorta di medicina, un modo per tornare artificios­amente a sentirsi normali, a scansare quel senso di insicurezz­a costante che ci è maturato dentro. Quanto si può vivere tappati in casa, soprattutt­o in piccoli appartamen­ti, senza poter portare i bimbi al parco giochi? Al primo cenno di allentamen­to, l’attenzione è calata rapidament­e ed è esplosa la frustrazio­ne. Sabato centinaia di giovani, anziani, mamme con bambini sono scesi in varie piazze svizzere a manifestar­e contro le restrizion­i delle libertà individual­i. Sono una minoranza rumorosa, che va comunque considerat­a. La maggioranz­a silenziosa ha saputo mettere da parte l’egoismo per il bene collettivo, per proteggere i più deboli tra noi. Oggi riaprono negozi, bar, ristoranti. Siamo figli della società del fare frenetico, abbiamo dovuto malvolenti­eri rallentare di botto, ora possiamo uscire dal confinamen­to forzato. Eppure, c’è chi fatica a uscire. Il 62% dei ticinesi (secondo un sondaggio Ssr) trova frettolosa la riapertura di ristoranti, negozi e scuole. Malgrado lo stress iniziale, c’è chi ha trasformat­o il confinamen­to forzato in tempo guadagnato per sé stessi, per la famiglia, per gli hobby. Ora il ritorno alla normalità genera più stress. La chiamano la sindrome della capanna. Nell’insicurezz­a generale la casa è diventata l’unico luogo dove ci si sente protetti. Ci adatteremo di nuovo, in questo stiamo diventando campioni.

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