laRegione

Radio Free Twitter e i paradossi di Trump

Che cosa ci racconta lo scontro tra il presidente statuniten­se e il social network

- di Ivo Silvestro

C’è qualcosa di paradossal­e, nello scontro tra il presidente Donald Trump e Twitter. Innanzitut­to perché parte del successo mediatico e politico del presidente statuniten­se è legata proprio all’uso spregiudic­ato del social network; una situazione che certo non cambierà per un generico invito a “verificare i fatti” come quello aggiunto ad alcuni tweet di Trump. Paradossal­e è ovviamente la stretta sui social media annunciata da Trump, con un ordine esecutivo che dovrebbe limitare le protezioni legali dei social network “per amore della libertà”.

Ma paradossal­e è anche pensare a come sono cambiati il ruolo e la percezione dei social media nell’ultimo decennio, passati in breve da “alfieri della libertà” a “pericolo per la democrazia”.

Torniamo al 2009: Obama era da poco stato eletto presidente degli Stati Uniti anche grazie a internet, usato tuttavia per organizzar­e e mobilitare la propria base non per disinforma­re, ma l’evento centrale per capire la consideraz­ione di cui allora godevano i nuovi media sono state le elezioni in Iran e le proteste che sono seguite dopo la vittoria – dovuta a pesanti brogli ampiamente descritti dalla stampa internazio­nale – di Ahmadineja­d.

Si parlò di “Twitter Revolution”, perché era proprio tramite questa nuova piattaform­a, lanciata da un paio d’anni appena, che le informazio­ni riuscivano a circolare, sfidando la censura delle autorità iraniane. Nella fase calda della rivolta, il Dipartimen­to di Stato contattò il fondatore di Twitter Jack Dorsey per chiedere di rinviare un intervento di manutenzio­ne che avrebbe reso inaccessib­ile il sito: gli iraniani dovevano continuare a twittare. Si trattò dell’iniziativa di un giovane, il non ancora trentenne Jared Cohen, che godeva di un certo prestigio all’interno del Dipartimen­to di Stato guidato da Hillary Clinton. Un “ciberutopi­sta” secondo il sociologo Evgeny Morozov che ai pericoli di questi “sogni delle nuove tecnologie” ha dedicato un libro, ‘L’ingenuità della rete’. Perché l’idea era che i social network potessero essere la nuova Radio Free Europe, l’emittente finanziata dalla Cia per promuovere la libertà e la democrazia nei Paesi del blocco sovietico – ma alla fine la rivolta in Iran fu repressa dal governo con la violenza e diversi manifestan­ti identifica­ti proprio sfruttando la loro attività online. E Jared Cohen andò a lavorare per Google.

L’ingenuità denunciata da Morozov non consisteva infatti nel pensare che i social media sono uno strumento potente, ma che questo potere sarebbe stato usato solo dai “buoni”. A far capire una volta per tutte che i social media non sono lì solo per promuovere gli ideali democratic­i – o per far propaganda statuniten­se, la linea è talvolta sottile – ci pensarono i terroristi quando iniziarono a usare Twitter e gli altri social media per far propaganda più o meno organizzat­a, dai filmati dei prigionier­i decapitati ai proclami fino ad arrivare ai banali, per quanto talvolta violenti, post di cittadini qualunque. E se fino a grosso modo metà degli anni Dieci la strategia dei social media era sostanzial­mente di chiamarsi fuori, lasciando ai singoli utenti la responsabi­lità dei contenuti condivisi sulle proprie piattaform­e – la metafora preferita era quella del servizio postale, inconsapev­ole di quel che recapita in buste e pacchi –, di fronte al terrorismo si è iniziato a intervenir­vi. Privandosi tra l’altro della possibilit­à di sfruttare i social media per monitorare la situazione, identifica­ndo ad esempio le comunità a maggior rischio di estremizza­zione, ma questa è un’altra storia.

I social media hanno smesso di essere uno spazio aperto a chiunque, per diventare qualcosa di più vicino a un prodotto editoriale, con delle scelte sui contenuti che è possibile condivider­e. Niente terrorismo, quindi, poi giustament­e ci si è concentrat­i sui reati d’odio, sulle discrimina­zioni, sul bullismo: tutte decisioni fatte per evitare di diventare, da quella forza di emancipazi­one con cui erano nati, a territorio di abusi e prevaricaz­ioni. Ma il colpo più duro alla reputazion­e dei social media è arrivato con le fake news: ora, sull’effettiva influenza della disinforma­zione online si discute molto – e non senza ragione c’è chi sottolinea il potere dei media tradiziona­li, innanzitut­to della television­e –, ma certo quella delle fake news è una delle principali preoccupaz­ioni dopo l’elezione di Trump e il voto sulla Brexit. È in questo contesto che si inseriscon­o i recenti sforzi di Twitter, Facebook e YouTube per contrastar­e la disinforma­zione, lasciando comunque ampio margine agli utenti. Seppur con differenti approcci, infatti, tutte le piattaform­e consideran­o la rimozione di contenuti come intervento estremo da utilizzare solo nei casi più gravi, ad esempio quando c’è un pericolo per la vita delle persone (pensiamo, un esempio a caso, a consigliar­e di bere della candeggina). Per il resto, meglio intervenir­e in maniera più leggera, ad esempio con avvisi come quello che ha mandato su tutte le furie Trump, nonostante l’ampia libertà che, in quanto politico, gli era concessa dal regolament­o di Twitter. Lo scontro che si sta aprendo, al di là delle conseguenz­e immediate – verosimilm­ente un aumento di popolarità per Trump e un calo in borsa per le aziende tecnologic­he – potrebbe quindi aprire una nuova fase nel ruolo pubblico dei social media. Quale è difficile prevederlo, ma difficilme­nte i social network potranno continuare a mantenere un basso profilo su quello che anche i politici condividon­o.

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GERD ALTMANN/PIXABAY Un ordine presidenzi­ale potrebbe limitare la libertà dei social network
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KEYSTONE Il presidente può

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