laRegione

Dalla Crimea a Hong Kong

- Di Erminio Ferrari

Hong Kong non è la Crimea, e la Cina non è la Russia. Identici rimangono invece gli spettatori internazio­nali (europei e nordameric­ani) di una nuova prova di forza che viola i diritti dei cittadini di un territorio almeno in parte sovrano, e che ne annuncia altre, ove gli eventuali destinatar­i (Taiwan) non capissero l’antifona.

Non sembrano esservi dubbi sul fatto che i tempi scelti da Pechino per introdurre la nuova legge sulla “sicurezza” nell’ex colonia britannica intendono sfruttare la condizione di debolezza in cui si trovano Europa e Stati Uniti a causa della pandemia di Covid-19. Ma questo ha più a che fare con la tattica che con la strategia, e distingue la rozza annessione della Crimea da parte di Vladimir Putin dalla “normalizza­zione” di Hong Kong da parte di Xi Jinping. La prima è stata la mossa propagandi­stica di un regime a cui solo la forza muscolare non fa difetto; la seconda un passaggio nel processo di affermazio­ne della Cina quale Paese egemone su scala mondiale. Non solo. Della Crimea gli occidental­i hanno una gran fretta di dimenticar­e il destino; mentre le loro economie, ben più di quella cinese, non possono prescinder­e da una piattaform­a di scambio fondamenta­le come è Hong Kong. E soprattutt­o, se con Mosca qualche forma di appeasemen­t è ancora contemplat­a dalle diplomazie europee, con Pechino, stante la sproporzio­ne delle forze, è necessario venire a patti. O subirli non disponendo della capacità di imporli.

È bene averlo presente nel momento in cui, di qua e di là dell’Atlantico, le reazioni ufficiali al colpo di mano cinese possono evocare una qualche energica azione di rappresagl­ia diplomatic­a o economica Nel senso che è bene non farsi illusioni. Se la Casa Bianca, in piena propaganda elettorale, ha tutto l’interesse a imbastire una campagna di sdegno e di affermazio­ne dei “valori democratic­i”, per l’Europa il discorso è diverso, trovandosi ancora una volta schiacciat­a tra la determinaz­ione indifferen­te del gigante cinese e la foga sgangherat­a e falsa di Donald Trump alla quale non vuole essere assimilata. In altre parole, la condanna, anche in forma di eventuali sanzioni, dell’atto d’imperio cinese rischia di essere un sussulto episodico, destinato a rimanere poca cosa; poco più di un inciampo sul percorso egemonico della Cina. Se è vero cioè che il momento scelto per archiviare brutalment­e l’autonomia di Hong Kong ha a che fare con le difficoltà in cui si trovano Europa e Stati Uniti, è ancora più vero che ciò non è liquidabil­e come un temporaneo accidente, ma è semmai l’esito di una subordinaz­ione alla Cina di un occidente che ne aveva fatto la propria manifattur­a e ora ne è dipendente ben oltre la mera dimensione industrial­e. Ne è, in molti campi, proprietà.

Poi, certo, ha ragione chi invita a non considerar­e infallibil­e Xi e inscalfibi­le il sistema di potere che ha stretto attorno a sé. Mentre il patto tacito stabilito tra regime e cittadini per cui il benessere vale la mancanza di diritti ha già mostrato il proprio vizio d’origine e più di una falla. Contare tuttavia su un ridimensio­namento della Cina generato dalle inevitabil­i crisi di crescita e da eventuali richieste di democrazia interne, è da un lato illusorio, dall’altro espression­e di codardia. Chi ritiene la libertà di Hong Kong un valore non negoziabil­e affronti Pechino e paghi il prezzo che ne deriverà.

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