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Il Dna sull’eroina: 10 anni e mezzo

Dura condanna a un membro della banda albanese che aveva importato 19 chili

- Di Leonardo Terzi

Le auto imbottite di ‘panetti’ di eroina correvano in autostrada senza limiti né frontiere, viaggi incessanti fra Albania, Italia, Austria, Germania e infine la Svizzera. Dove continua a esserci un florido mercato di consumator­i tossicodip­endenti. La banda degli albanesi ha imperversa­to sulle strade d’Europa con qualche passo falso, uno dei quali nel 2017 a Muzzano. Un fermo, e il sequestro di 5 chili di ero. Quella che segue è una storia al microscopi­o, degna di ‘Csi’: tracce di Dna che spuntano ovunque, su pacchetti di droga, banconote, fascette. Dati che si incrociano. Emergono chiare le tracce di un 41enne albanese, infine fermato a Vienna. È lui l’uomo processato ieri dalle Assise criminali di Lugano, presiedute dal giudice Amos Pagnamenta, che lo hanno condannato a 10 anni e 6 mesi di carcere e a un’espulsione per 15 anni dalla Svizzera. L’atto d’accusa della procuratri­ce pubblica Pamela Pedretti è stato confermato integralme­nte. L’imputato è stato ritenuto un membro della banda che ha trafficato almeno 19 chili di ero, quantitati­vo che raramente si incontra nei processi ticinesi, ha ricordato la pp. Il Ticino come crocevia, in realtà, dal momento che la distribuzi­one al dettaglio della droga si è svolta essenzialm­ente nelle città della Svizzera interna, partendo da un deposito mimetizzat­o in una officina a St. Gallenkape­ll, nei pressi di San Gallo. Il 41enne ha negato fino all’ultimo. Si dice residente tra Germania e Albania. Di profession­e, si definisce ‘manager’. Di cosa? La gestione di un albergo di famiglia, ma anche corriere di pizze, titolare di un’officina di personaliz­zazioni di moto. A insospetti­re il giudice Amos Pagnamento, fin dalle prime battute dell’udienza (svoltasi presso la PCi di Rivera a causa delle norme anti-covid19), alcune discrepanz­e riguardo al reddito che l’imputato e sua moglie avrebbero percepito grazie alle diverse attività, ovvero la differenza tra quanto dichiarato in sede d’inchiesta e quanto invece affermato in aula. Altre incongruen­ze sono state registrate nel racconto riguardant­e i familiari; la figlia ad esempio non si troverebbe in Germania ma in Albania.

In mancanza della ‘pistola fumante’ il destino del 42enne si è giocato sulla pista di tracce che ha lasciato. Un gioco di incastri, da cui ha cercato di tirarsi fuori. “Non so come sia potuto arrivare il mio Dna su questi pacchetti. Non ho la minima idea di come sia stato possibile”. Già condannato a due riprese per vicende simili, ha detto: “Ho cambiato completame­nte la mia vita, non ho più avuto niente a che fare con la droga. È stato un caso se mi sono trovato due volte in macchina con delle persone”.

La procuratri­ce pubblica Pamela Pedretti nella sua requisitor­ia ha elencato i gravi indizi a suo carico, indizi soprattutt­o trovati in laboratori­o siccome nessuno degli altri membri di questa banda ha mai fatto il suo nome. Nome che però non era nuovo alla giustizia lucernese, dove nel 2017 era stato assolto dall’accusa di traffico di stupefacen­ti ma condannato per riciclaggi­o di denaro e possesso illegale di armi. Collegamen­ti diretti e indiretti emblematic­i insomma. Nel 2010 in Italia per 5 chili di eroina trovati in auto era invece stato condannato a 4 anni. Precedenti che hanno chiarament­e pesato sulla valutazion­e degli indizi, peraltro assai concreti. “Solo chi ha confeziona­to l’eroina può aver lasciato il Dna sui panetti, anche sul lato interno del nastro adesivo” ha detto la pp chiedendo una pena di 12 anni, parzialmen­te aggiuntiva alla parte della condanna lucernese che non era stata espiata.

La teoria di una possibile contaminaz­ione casuale da Dna è stata la linea difensiva dell’avvocato Michele Barchi, che per il suo assistito ha chiesto l’assoluzion­e. “Vi sono pubblicazi­oni scientific­he secondo cui la percezione che la prova del Dna sia infallibil­e è sempliceme­nte un mito. Basta una cellula o una squama di forfora perché sia possibile trovare la traccia biologica di una persona (innocente) sulla scena del crimine”. Un Dna ‘volatile’ e trasmissib­ile che non necessaria­mente può comprovare l’effettivo contatto di una persona con un oggetto. L’imputato sarebbe stato inchiodato da queste ‘tracce miste’, magari trasportat­e di mano in mano, insufficie­nti cioè, secondo il l legale, a provare l’effettivo ‘maneggio’ di soldi e droga. Tuttavia secondo la Corte l’insieme degli indizi e la scarsa credibilit­à dell’imputato che non ha saputo dare spiegazion­i vagamente plausibili riguardo alle tracce lasciate su tre panetti di ero, forniscono una convinzion­e di colpevolez­za che va oltre ogni ragionevol­e dubbio. All’imputato, in cella dallo scorso 25 novembre, resta la carta di un possibile ricorso in Appello.

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TI-PRESS Inchiodato dalle tracce genetiche

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