Addio a Sergio Zavoli, principe del giornalismo
Cronista, scrittore e politico, aveva a 96 anni
Era un “omone” Sergio Zavoli – scomparso ieri a 96 anni – capace di riempire il teleschermo (o la scena) con un carisma appoggiato alla sua fisicità: le mani grandi e forti che sapevano accarezzare un bambino o incutere timore ad altri uomini fatti, la criniera fattasi bianca e tagliata corta della capigliatura da leone, la voce baritonale che trasmetteva emozioni con una semplice variazione d’accento. Un cronista che mai ha saputo rinunciare al vezzo di sentirsi tale anche quando era ormai diventato il principe dei giornalisti radio-televisivi e poi presidente della “sua” Rai, e poi uomo politico con 17 anni al Senato. Ma Sergio Zavoli è stato, prima di tutto, un appassionato cantore dell’Italia che cambiava, in curiosa sintonia con la poetica di Cesare Zavattini, usando quel mezzo (la radio con cui debuttò e poi la tv che seppe trasformare a sua immagine e somiglianza) di cui aveva intuito la potenza fin da giovanissimo e che per tutta la vita ha considerato “cosa pubblica” e quindi dovere etico e civile di onestà del racconto e della testimonianza.
Nato a Ravenna nel 1923, cresciuto a Rimini debuttando a 20 anni come giornalista sul periodico degli universitari mentre il regime fascista ormai traballava, Zavoli entrò nella rinnovata Rai del dopoguerra già nel 1947 facendosi notare per la duttilità da cronista e per la passione per lo sport che nel 1958 gli offrì la prima chance da protagonista: l’ideazione di una rubrica quotidiana, il “processo alla tappa” che andava a completare le radiocronache del Giro d’Italia.
Rispetto a molti suoi colleghi, Zavoli aveva un’idea molto precisa della forza che le immagini potevano imprimere al racconto e all’inchiesta. Se intervistava un politico, uno sportivo, un uomo qualunque o un terrorista, voleva che la telecamera si avvicinasse progressivamente al soggetto per frugare nei suoi lineamenti, per carpirne le reazioni immediate. Se l’uso della telecamera aveva per lui un piacere quasi da regista (tra i migliori amici ebbe Cesare Zavattini prima e Federico Fellini poi, entrambi uomini della Bassa, di quella Romagna che ha sempre portato nel cuore), altrettanto appassionata era la ricerca sulla lingua, un italiano mai artificioso ma sempre ricercato nella proprietà dell’espressione e nella precisione del sinonimo. Tutte virtù che l’hanno portato a scrivere con crescente passione anche per il libro, per la memoria e la poesia, dallo scandaloso “Socialista di Dio” con cui vinse il Premio Bancarella nel 1981 fino all’autobiografico “Il ragazzo che io fui” del 2011.
La Rai che credeva nel pluralismo Sergio Zavoli era stato presidente della Rai dal 1980 al 1986: indicato dal Psi di Bettino Craxi, Zavoli gestì l’azienda in anni difficili, segnati dalla fine del monopolio, messo in discussione dall’intraprendenza di Silvio Berlusconi e dalla nascita dei network privati: “Opporsi al mercato – avrebbe ricordato vent’anni dopo – era un suicidio: bisognava competere con Fininvest, a condizione però che questo significasse distinguersi e non appiattirsi sul modello della concorrenza”. Il suo mantra era già allora il pluralismo: “Con la riforma del ’76 – raccontava – fu stabilito che le testate dovevano essere attribuite a direttori scelti dal corpo redazionale. Io ero socialista, e mi trovai alla guida del Gr1 scelto da persone che la pensavano come me. Volendo fare un gr da servizio pubblico, mi misi allora alla ricerca di democristiani, comunisti. Mi ricordo che mancava il liberale: andai a cercarlo anche nei sottoscala…”.
A Viale Mazzini lasciò il segno anche sul piano della produzione di qualità, dai grandi serial come ‘Verdi’, ‘Marco Polo’, ‘Cuore’, ‘Cristoforo Colombo’, al cinema d’autore (producendo fra l’altro ‘E la nave va’ di Federico Fellini), dalle inchieste e rubriche dedicate al sociale e alla collettività alla cultura, fino all’intrattenimento: un esempio su tutti, ‘Quelli della notte’ di Renzo Arbore, che avrebbe poi definito un esempio di “happening temerario, ma incrollabile”.