Menomale che Neil Young c’è
Il rocker porta Trump in tribunale. Perché anche i cantautori, nel loro piccolo, s’incazzano.
Non è esattamente ‘Hey hey, my my, Donald Trump will never die’, ma a Neil Young, cantautore di ‘Harvest’ e altro americano songwriting, proprio non va giù che il presidente utilizzi le sue canzoni per fare campagna elettorale. La scorsa settimana, all’ennesima appropriazione ideologica dei suoi fonogrammi, il cantautore si è rivolto a un tribunale federale accusando Trump di violazione del diritto d’autore. Nel massimo rispetto per le idee politiche di tutti, ma anche in difesa del proprio intelletto “usato per una campagna d’ignoranza e odio che nulla ha a che vedere coi valori della Costituzione”. I legali dell’artista canadese naturalizzato statunitense si caleranno su di una legge degli anni 40 che prevede l’acquisto da parte del politico di turno di una Political Entities Licence, una licenza che consente di scegliere tra milioni di brani, dalla quale però gli artisti possono anche togliersi. Riuscirà dunque Neil Young a vendicare la sua ‘Rockin’ in the free world’ usata da Trump per annunciare la sua candidatura e tutto il resto da allora sino alla piazzata biblica (con bibbia) nel postGeorge Floyd?
L’atteggiamento generale, quando ci si rivolge alla musica, è la totale assenza del chiedere il permesso. Accade da prima di Napster, quel programmino di file sharing di fine Novecento cui si deve l’allucinazione “musica gratis per tutti”, più o meno lo slogan degli ‘autoriduttori’, movimento politico dei primi Settanta che in Italia pretendeva la gratuità dei concerti, prendendo in ostaggio i cantautori (vedi ‘Processo a De Gregori’). Chiedere il permesso, comunque, è azione che prescinde dal fraintendimento. E il fraintendimento per eccellenza della politica s’intitola ‘Born in the U.S.A.’, che Ronald Regan in piena guerra fredda pretendeva di utilizzare per le presidenziali, confondendo però la triste storia del veterano del Vietnam di Spingsteen con il miglior inno patriottico in circolazione nel 1984. Ricevendo pertanto un ‘niet’ dal Boss in persona.
Da Tom Petty all’Apicella di Renzi
Il brano più saccheggiato dai repubblicani potrebbe essere ‘I won’t back down’ di Tom Petty, appuntato al gonfio petto tanto da George W. Bush nel Duemila, da cui la diffida del cantautore da vivo, quanto da Donald Trump nel raduno dello scorso giugno a Tulsa, da cui la diffida del cantautore da morto (tramite figlie ed ex moglie, orfane e vedova dal 2017): “Tom Petty non avrebbe voluto che una sola canzone fosse usata per una campagna d’odio. Lui amava unire le persone”. Lo stesso era accaduto nel 2011 quando l’aspirante presidentessa Michelle Bachmann si era appropriata di ‘American Girl’. Per abuso di canzonetta, tranne forse il Pulcino Pio® (sì, è un marchio registrato), Trump ha collezionato diffide da tutti: da Rihanna (‘Don’t stop the music’), Rem (‘It’s the end of the world’), Rolling Stones (‘You can’t always get what you want’), Guns N’ Roses (‘Sweet child of mine’), Pharrell Williams (‘Happy’). Non è autorizzato ad accompagnarsi con ‘We are the champions’ dei Queen e ‘September’ degli Earth Wind & Fire. Gli eredi di George Harrison hanno posto il veto su ‘Here comes the sun’, quelli di Pavarotti sul ‘Nessun dorma’ che porti la voce di Big Luciano, quelli di Prince su ‘Purple rain’. C’è poi il ‘giù le mani’ di Elton John da ‘Rocket man’ e ‘Tiny dancer’. Il pianoman, con la consueta eleganza, specifica: “Perché non chiedete a Ted Nugent? O a una di quelle country star del c **** ? Ve lo fanno gratis”.
In Italia ha fatto storia il fraintendimento di Walter Veltroni, dimissionario da sindaco di Roma in vista delle politiche del 2008: “Gliel’avevo detto che era una canzone sul saper accettare le sconfitte”, dirà Jovanotti a sconfitta avvenuta. Ma Veltroni si era intestardito su ‘Mi fido di te’ ascoltando l’incipit, evidentemente senza mai arrivare a “Cosa sei disposto a perdere”. Jovanotti è legato ad altra vita politica della Penisola, con Matteo Renzi che nel 2011, più o meno nei giorni di “I nostri nonni hanno sconfitto il fascismo, i nostri padri il terrorismo e noi abbiamo sconfitto la mafia”, entrava alla Leopolda sulle note de ‘Il più grande spettacolo dopo il Big Bang’. Quando l’ex sindaco imploderà, l’Apicella di Renzi, come qualcuno aveva definito Jovanotti, lo definirà “Un esempio della debolezza della politica”, e il politico gli preferirà Patty Smith (‘People have the power’) per accompagnare la campagna referendaria sulle riforme istituzionali. Ma la sete di citazioni cherubine dell’ex presidente del Consiglio non si placherà: nel giorno dell’addio al Pd, il futuro leader di Italia Viva posterà il link del video di ‘Sul lungomare del mondo’, sposando quel “Da oggi chiudo i conti col passato, i passi fatti e quelli che farò”, e i relativi “pessimisti”, “persuasori” e “disonesti” invisi tanto all’autore del testo quanto al redivivo aspirante statista.
Tanto tuonò...
Ci sarebbe anche la minaccia di causa intentata ai Cinque Stelle da Ludovico Einaudi per le (poche, come sempre) note di ‘Divenire’, utilizzate dal movimento per uno spot televisivo anti-euro. Citeremo invece una delle querelle più recenti: è il dicembre del 2018 quando la Lega riunita in Piazza del Popolo a Roma decide di scaldare gli animi dell’elettorato sulle note de ‘Il cielo è sempre più blu’, riciclando a proprio favore uno degli evergreen della sinistra, segno che la musica è senza confini e la politica è senza vergogna. A questo punto, il cielo da blu si fa plumbeo e la famiglia di Rino Gaetano ne ha abbastanza: “La politica non utilizzi più le sue canzoni. Rino non ha colori politici. Ha suonato alcune volte alla Festa dell’Unità, ma lui era solo a favore del popolo e contro chi tradiva i suoi ideali”. Tanto per essere precisi, e in risposta alla Sony cui si erano appellati per ottenere supporto (e che aveva risposto “Comunque i partiti pagano la Siae"), la sorella e il nipote del cantautore morto a
Roma nel giugno del 1981 poco più che trentenne (e oggi più moderno di Achille Lauro) dichiarano a Repubblica che la Siae non è il punto.
‘Quella canzone ha distrutto la mia carriera’
Nel Ticino delle buone maniere c’è serenità tra Sebalter e le istituzioni, con la musica del cacciatore di stelle che echeggia nelle segreterie telefoniche dell’Amministrazione cantonale senza particolare distinzione partitica. Non corre rischi, comunque, chi in politica le canzoni se le scrive da sé. Che è quello che di norma ha fatto il sempre più rimpianto* Silvio Berlusconi, che le canzoni per far battere i cuori degli elettori e delle elettrici le commissionava ex novo. A partire da ‘Forza Italia’ (“Forza, alziamoci. Il futuro è aperto, entriamoci”), inno dell’omonimo partito composto un anno prima della sua discesa in campo dai maestri Renato Serio e Augusto Martelli (al secondo si devono le sigle de ‘Il pranzo è servito’ e ‘Casa Vianello’), ad ‘Azzurra libertà’ (2000), il brano dei Giovani di Forza Italia che nel 2016 allo zio Silvio diranno addio. Ma gli amanti del ritornello che non va più via ricorderanno ‘Menomale che Silvio c’è’ (anche nella variante ‘Meno male che Silvio c’è’, si rimanda eventualmente alla Treccani), brano che nel 2008 accompagnò il Cavaliere al trionfo elettorale non senza alcune perplessità sul fatto che si trattasse di tributo e non di presa in giro. “Quella canzone ha distrutto la mia carriera”, dichiarerà una decina d’anni dopo Andrea Vantini, autore dell’opera, denunciando alla stampa italiana l’essere stato emarginato: “Un’affermazione grave – dirà del titolo della sua canzone – che il mondo dello spettacolo, foraggiato economicamente dalla sinistra, mi sta ancora facendo pagare”. Chissà come l’avrebbe presa il mondo della poesia (al momento di andare in stampa non siamo in grado di dire chi foraggia il mondo della poesia) se Vantini avesse mantenuto il titolo originario, ‘A Silvio’.