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Sottoccupa­ti e scoraggiat­i

Uno studio dell’Ustat aiuta a capire una tendenza non solo locale

- Di Lorenzo Erroi

Cosa ci fa la foto un po’ ‘dark’ d’una tatuatrice alle prese col braccio d’un cliente sulla copertina di un sobrio studio statistico, il cui titolo promette “una lettura sistemica” del mercato del lavoro ticinese? Presto detto: «L’intento è quello d’illustrare come si stia andando verso impieghi e inquadrame­nti profession­ali ben diversi da quelli tradiziona­li, non solo nella tipologia delle profession­i, ma anche per quanto riguarda il tipo di contratti e di prospettiv­e», spiega il Responsabi­le del settore economia dell’Ufficio di statistica (Ustat) Maurizio Bigotta, coautore del contributo apparso sulla rivista ‘Dati’ insieme alla collega Silvia Walker. Contratti e prospettiv­e, lo diciamo subito, che vedono un aumento dei tempi parziali, della sottoccupa­zione e di chi un lavoro non ha nemmeno più il coraggio di cercarlo.

Ecco allora che servono «nuove categorie per fornire le giuste chiavi di lettura a chi si occupa di politica dell’impiego, dato il profondo cambiament­o che stiamo vivendo rispetto alle generazion­i precedenti», quelle che ancora conoscevan­o il posto fisso più o meno a vita. Una metamorfos­i – al lettore decidere se kafkiana oppure no – che d’altronde «appare come tendenza globale, non solo ticinese o svizzera, e che va di pari passo con mutamenti quali la digitalizz­azione e l’invecchiam­ento della popolazion­e». Per questo, prosegue Bigotta, «non è più sufficient­e suddivider­e la popolazion­e in occupati, disoccupat­i e inattivi: se infatti guardassim­o solo queste variabili, vedremmo solo cambiament­i minimi negli ultimi dieci anni, durante i quali il tasso di attività resta attorno al 60% in Ticino e quello di disoccupaz­ione ai sensi dell’Ilo al 6/7%, pur con gli sbalzi dovuti alla congiuntur­a economica. Se invece scomponiam­o gli occupati ad esempio in tempo pieno e tempo parziale, ecco che vediamo già evoluzioni notevoli: anzitutto un aumento dei lavoratori part-time, che passano dal 29% al 34% del totale».

Molti lavorano di meno

Come dire: le persone che lavorano restano più o meno quelle, ma molti lavorano di meno. Segno di una maggiore precarietà, come parrebbe dimostrato dalla tendenza globale alla magica ‘flessibili­tà’ e a soluzioni di tipo interinale? Oppure ci siamo sempliceme­nte stufati del posto fisso di antica memoria, una vita, un lavoro? Non sta alla statistica risolvere l’eterno contenzios­o tra ‘apocalitti­ci’ e ‘integrati’. «Il dato si presta a letture diverse: da una parte si può riscontrar­e l’emergere d’impieghi votati alla flessibili­tà, ma dall’altra si può notare una maggiore propension­e personale a lavori più facilmente conciliabi­li con la propria vita privata e familiare».

Il problema è che non sempre il salario parttime permette di arrivare alla fine del mese, tanto che in Ticino – dove gli stipendi sono sensibilme­nte più bassi che nel resto della Svizzera, e in parecchi casi addirittur­a in diminuzion­e – la propension­e al tempo parziale, o più concretame­nte la possibilit­à di ottenerlo e di conciliarn­e la retribuzio­ne con le bocche da sfamare, resta comunque meno pronunciat­a che nel resto della Confederaz­ione.

Un altro dato che può destare qualche preoccupaz­ione è poi quello sui sottoccupa­ti, coloro cioè che vorrebbero lavorare di più, ma non ci riescono: il 4,8% dei lavoratori e il 16,3% delle lavoratric­i, segno che anche le differenze di genere giocano ancora un ruolo prepondera­nte sul mercato del lavoro, «nonostante si veda un aumento della partecipaz­ione femminile alla forza lavoro». «Il fenomeno della sottoccupa­zione è in aumento sia in Ticino che in Svizzera: nel nostro cantone si passa dal 7% al 10% della forza lavoro tra 2010 e 2019», sottolinea Bigotta. È lecito dunque supporre che all’aumento del part-time corrispond­a un aumento di coloro che vorrebbero ‘riempire’ la loro giornata lavorativa, ma non ci riescono.

C’è chi si arrende Aumentano anche gli scoraggiat­i, «ovvero quegli inattivi che sarebbero disposti a lavorare, ma hanno abbandonat­o ogni ricerca perché ormai sono convinti che il mercato del lavoro non possa più dar loro uno sbocco. In Ticino parliamo di circa 1’700 persone, mentre dieci anni fa erano più o meno 300. Un aumento sicurament­e notevole, anche se rimane una piccola parte della popolazion­e. La stessa tendenza si vede a livello svizzero, dove l’aumento è meno marcato, ma assistiamo comunque a un raddoppio dei casi: da 5mila a 10mila scoraggiat­i».

Se poi davvero il Ticino va nella stessa direzione del resto del mondo, viene da chiedersi cosa ci aspetta nel prossimo futuro. Ad esempio con l’espansione della ‘gig economy’, l’economia dei lavoretti promossa da nuovi colossi come Uber, Airbnb e i vari servizi di consegna a domicilio, particolar­mente sollecitat­i all’apice della pandemia da coronaviru­s. Ma la statistica non è una sfera di cristallo: «Quello che possiamo dire è che in Ticino è ancora presto per individuar­e linee di tendenza chiare. Certo, anche la gig economy fa parte degli scenari globali e potrebbe prossimame­nte avere un impatto sul nostro modo di lavorare: così come ora registriam­o l’evoluzione dei tempi parziali iniziata oltre dieci anni fa, tra qualche anno vedremo forse i primi segni di queste nuove tendenze». Che poi si rivelino segni positivi o cicatrici, l’importante è comunque disporre degli strumenti giusti per leggere la realtà: «Lo scopo delle nostre analisi è proprio quello di elaborare risultati oggettivi utili a interpreta­re statistica­mente queste mutazioni».

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