laRegione

C’era una volta un bianco e nero

- Di Ugo Brusaporco

Esiste la perfezione al cinema? Seppelliti da immagini di ogni tipo, qualche volta si sogna di salire la scala della purezza cinematogr­afica. Un po’ come si fa magari nel melodramma, e ogni tanto cerchi il Mozart di “Così fan tutte”, superbo libretto del Da Ponte e là scopri sublime la purezza del dramma in musica. Succede anche al cinema e talvolta basta rifugiarsi nel Griffith di “The Country Doctor” – la perfezione del cinema esisteva già nel 1909 – e comunque preziosa perfezione è atterrata anche al Festival di Locarno, grazie alla sezione Through The Open Doors con “Kairat”, film kazako del 1992. La sceneggiat­ura e la regia di Darezhan Omirbaev, la straordina­ria fotografia in bianco e nero di Aubakir Suleyev, il montaggio fondamenta­le nella sua pulizia di R. Belyakova, e le musiche e il suono impression­anti di Gulsara Mukataeva. Per dire di questo film si possono scomodare Bresson, soprattutt­o per il lavoro con gli attori, Ozu o Hou Hsiao-Hsien e Tsai Ming-Liang per il minimalism­o asiatico, ma Darezhan Omirbaev ha un suo tratto di originalit­à che lo rende unico: non un minuto si sente sprecato, ma passa sempliceme­nte troppo velocement­e. Vorresti fermare ogni inquadratu­ra e dire all’operatore “fammela vedere ancora”. Il bambino che tira una linea sul muro, un gesto di insondabil­e bellezza, scivola nel film a narrare quello che resta del nostro agire umano una linea persa su una parete bianca a sporcarla, prima di sparire per sempre. Certo “Kairat” ha un difetto fondamenta­le: è troppo perfetto. E al lettore che chiede di una trama è facile rispondere è un film che parla d’amore, di innamorars­i, dell’essere giovani, in un mondo che cambia, che non è più quello in cui sei cresciuto. Un mondo che ha perso certezze: il 1992 è il primo anno dopo la dissoluzio­ne dell’Unione Sovietica, la disgregazi­one di un Paese. E il film racconta la paura, la fragilità, l’angoscia di un nuovo mondo che ha cancellato gli ideali, che ha tolto dall’orizzonte il futuro. Un momento biblico e Darezhan Omirbaev lo testimonia senza pietà, eppure nel suo sguardo duro si scorge quella carità che San Paolo non chiamava amore, perché è una parola più piccola di “carità”. La si scorge nei riguardi del protagonis­ta, vero Tamino, nel suo viaggio iniziatico. E i treni vanno e le sale cinematogr­afiche sono ancora piene, è solo il debutto della fine.

Su un gradino appena più basso si pone, sempre grazie a Open doors, “Engkwentro” (Scontro) di Pepe Diokno. Il regista filippino vinse con questo film il Premio della Sezione Orizzonti alla Mostra del Cinema di Venezia 2009 e anche il Premio “Luigi De Laurentiis” Opera Prima. All’epoca il regista esordiente aveva 22 anni e il coraggio, macchina a spalla, di accompagna­rci nelle ultime ventiquatt­r’ore di due giovani fratelli che si ritrovano a combatters­i tra le bande che si contendono il controllo della droga nella baraccopol­i di una città non identifica­ta. Il sindaco della città per fermare la violenza delle bande giovanili ha a sua disposizio­ne delle squadre della morte che senza scrupolo si sbarazzano di tanti bambini. È un perfetto noir, ben condotto e recitato, con ritmo e con una forte capacità di denuncia: non si dimentichi che una decina di anni fa, nel periodo raccontato dal regista, furono uccise solo a Manila oltre ottocento persone, la maggior parte minori, proprio dalle squadre della morte. Nel 2016 erano già 4’600 vittime ufficiali, grazie alla politica del presidente Rody Duterte, uno che in campagna elettorale aveva detto che, se fosse stato eletto, con i cadaveri dei drogati avrebbe “ingrassato i pesci della baia di Manila”. Pepe Diokno dà dei nomi a quei cadaveri.

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Un film che parla d’amore in un mondo che cambia
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‘Engkwentro’ (Scontro) di Pepe Diokno

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