laRegione

Una poltrona per due

Così diversi in campo, così uguali nel porsi di fronte al loro grande amore, il tennis

- Di Marzio Mellini

Quando Goran Ivanisevic si sbilanciò, prima delle semifinali del Roland Garros, con un azzardato «a queste condizioni, su questa terra e contro questo Djokovic, Nadal in finale non ha chance», non poteva certo conoscere in anticipo l’esito dell’ennesimo duello tra il maiorchino e il suo protetto. Né poteva immaginare che non ci sarebbe stata partita. Tuttavia, è uomo di tennis, il croato, vincitore a Wimbledon nel 2001, protagonis­ta a sorpresa di un successo che a suo modo fece storia, per come riuscì a costruirlo e ottenerlo. Quell’esperienza lì, quelle sensazioni che lui stesso ebbe il privilegio di provare, avrebbero dovuto guidarne la riflession­e e illuminarn­e il giudizio. Lui dovrebbe sapere quanto si cela dietro un trionfo in uno Slam. E dovrebbe sapere molto bene quanto è disposto a lavorare Nadal per colleziona­rne altri, dopo averne già vinti tanti. Tanto quanto il suo assistito Novak Djokovic. Con una differenza non di poco conto, però: il serbo gioca con l’assillo del record di titoli, da strappare ora all’accoppiata Federer/Nadal.

Il suo tennis giocoforza ne risente, di tanto in tanto. È in missione, Djokovic. Le sue vittorie sono ugualmente meritate e sudate, ma sono soprattutt­o un obiettivo ben preciso. Quelle di Nadal, così come quelle di Federer, sono invece la conseguenz­a dei rispettivi percorsi, profession­ali e anche umani. Approntati e affrontati con un amore verso la disciplina che li ha portati e ancora li porta a salire sul tetto del mondo, a molti anni di distanza dalla prima volta, quando nessuno avrebbe potuto pronostica­rne una longevità così rara e vincente.

Emerge ancora la commozione

Come se fosse ancora la prima volta, tanta è la commozione che ancora viene svelata dal match ball andato a segno. Un amore sincero, incondizio­nato, soprattutt­o corrispost­o. Ricambiato con finali come quella parigina di domenica, in cui Nadal – uno che di battaglie ne ha già vinte e combattute a migliaia, con serie ripercussi­oni su un fisico integro ma molto provato – per due set e mezzo ha rasentato la perfezione. L’ha usata per vincere, la perfezione. Contro il numero uno al mondo, contro un rivale di primissimo livello che imposta la parte finale della sua carriera in modalità “record”, al fine di passare alla storia come il tennista più titolato di sempre. Ambizione legittima, nello sport ai massimi livelli. Non che Nadal e Federer non ce l’abbiano, al contrario. La perseguono anch’essi, ci mancherebb­e, ma restano fedeli alla loro natura di campioni ormai navigati e prossimi al ritiro che della storia del tennis continuano a scrivere capitoli godibiliss­imi, con un amore che si sente, si vede. Che rende, anche in termini di vittorie. E continua a rendere proprio perché presuppone una leggerezza in grado di fare la differenza, se assistita da una preparazio­ne all’altezza e da un tennis di quelli che rimpianger­emo, quando non ci sarà più occasione di vederlo. Al netto delle sue imperfezio­ni stilistich­e, se parliamo di Nadal, che nulla tolgono al talento che lo ispira.

Il maiorchino ha ammesso di sognare di passare alla storia come il tennista più vincente di sempre, ma non lo ha mai urlato. Né ci ha mai perso il sonno. Lo ha solo sussurrato e lo ha ribadito, una vittoria dopo l’altra. Del resto, alzare la voce non serve, né sbandierar­e ambizioni di vertice gli è mai stato d’aiuto. La differenza la fa l’attitudine, sapersi rimettere in gioco dopo le enormi difficoltà passate durante il lockdown («Non sapete nemmeno quanto grandi sono state», ha detto), restare coerenti con un cammino intrapreso poco meno di vent’anni fa, che lo ha portato a sbancare Parigi per la prima volta nel 2005, quindici anni fa. Un’intera carriera normale fa, e ancora siamo qui a celebrarne la forza. D’animo, fisica, tecnica, morale...

Congratula­zioni reciproche

Ha fatto tredici, Rafa. Ha tenuto a distanza Djokovic che incalza a quota 17, ha agganciato Federer a 20 Slam, ha ottime possibilit­à di salire ancora, staccando il rivale nonché amico, dal quale ha ricevuto sincere congratula­zioni. Al quale ha rivolto a sua volta sentiti ringraziam­enti. «Credo che sia felice quando vinco, così come sono felice io quando va bene a lui». Sono parole che contengono gran parte delle risposte alla domanda “ma quanto è forte?”.

Sono sintonizza­ti sulla medesima lunghezza d’onda, Rafa e Roger. Concorrono allo stesso titolo che eleverà l’uno a scapito dell’altro. È la legge dello sport che lo vuole, va bene all’uno come all’altro. Così diversi in campo, in ogni sfaccettat­ura del gioco, così uguali nel porsi di fronte al tennis, nell’interpreta­re il ruolo e la profession­e che il destino ha dato loro nel medesimo periodo storico. È una poltrona per due, al momento. Sono entrambi degni di accomodarv­isi. Ma nessuno dei due ha intenzione di assopirsi su allori contesi loro dal terzo incomodo. Ugualmente qualificat­o, ma costretto a fare i conti con un “furore” colmo di orgoglio che lo condiziona un po’ e lo pone un gradino sotto nell’indice di gradimento popolare. La scalata di Djokovic è più rabbiosa, quella di Nadal è lineare. La difesa di Federer è nobile, ma destinata a prestare il fianco e a cedere, per raggiunti limiti di età.

Nel frattempo, però, i nomi sono ancora una volta questi. A Parigi, poi, il nome è sempre quello: Nadal è Parigi. Tredici successi nelle ultime sedici edizioni ne fanno un dittatore, più che un sovrano. Un dittatore decisament­e atipico, in quanto umile, amato e mantenuto al potere dall’amore del popolo del tennis. Federer e tifosi di Federer compresi.

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KEYSTONE 13 Slam a Parigi, 20 in tutto

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