‘Qui la pace muore’
Il mondo e l’Italia, narrata col graffio e l’amarezza insieme, portavano la firma di Erminio Ferrari. ‘La storia sopra Berlino’ per raccontare il Muro vent’anni dopo; ‘Una vita da Andreotti’, nel giorno della morte del ‘Divo’, dopo averne seguito assiduamente il processo; ‘Il caso (non) è chiuso’ a 25 anni dal rapimento e l’uccisione di Aldo Moro (‘La storia delle Brigate Rosse appartiene all’Italia. La verità no’). I titoli, di Ermi, erano una doppia firma. Detto di Venezia, della nascita della sedicente e secessionista Repubblica Padana (“Venuta al mondo avendo come madrina la menzogna e padrino il kitsch”), l’inviato Erminio Ferrari è soprattutto quello nell’ex-Jugoslavia.
‘Qui la pace muore’, titolava dall’entroterra dalmata, contrapponendo la costa dei “tepori adriatici e di bandiere croate” a un interno di “desolazione di case ridotte a brandelli”. È il febbraio del 1993 e il giornalista scrive da Zara a proposito della guerra serbocroata in Krajina, nel pieno degli scontri nell’enclave di Knin e nei giorni in cui a New York si sta cercando senza convinzione un accordo tra le parti. Proprio a Zara, Ferrari scatta istantanee il cui negativo è quello del ritratto e della testimonianza, che nella camera oscura della rotativa diventano nitide fotografie: “Quando finirà?”. «Quando? – sorride amaro un collega croato, che aggiunge – vedi quanto tricolore sventola sulle nostre case? La maledizione di questa guerra è che tutti combattono sotto la stessa bandiera: bianco-rosso-blu quella croata, bianco-rosso-blu quella serba». E anche a Zara come spesso accadeva, pressoché sempre, l’articolo diventava romanzo storico, oltre che cruda realtà, con la forza del racconto delle piccole cose e le facce degli eroi non da copertina: “Fuori, dove la vita sembra scorrere normalmente, c’è chi la guerra la trova comunque interessante, come un giovanissimo soldato croato incontrato alla stazione dei bus di Zara. Esibisce un bossolo di obice grande quasi quanto la sua persona: se anche domani venisse la pace, lui il trofeo di guerra se lo è già fatto”.
Nei giorni dei bombardamenti su Sarajevo, Ferrari scrive dal campo di Karlovac in territorio croato, ai confini con la Bosnia, a soli tre chilometri dalla guerra: “Da qui Sarajevo è lontana. Di mezzo c’è quel cuneo di Bosnia che arriva quasi a ridosso di Zagabria, infiammato e distrutto”. In quell’edizione de laRegione sfilano visi e volti dell’enclave musulmana – “Enclave, la parola che, insieme a pulizia etnica, la guerra jugoslava ha introdotto nei nostri vocabolari” –, Razak il muratore diventato soldato e scampato ai lager, l’anziano di Prjedor che a Erminio dice: “Vorrei tornare con te, giornalista, nel mio paese: ti indicherei ad uno ad uno i luoghi dove ho visto uccidere e straziare”. In mezzo al dolore, con la compostezza del suo ‘Porporì’, Ferrari trovava il modo di parlare di musica, degli “echi gitani di violino, fisarmonica, contrabbasso, chitarra” dell’orchestrina che un tempo accompagnava i matrimoni, nozze in cui ora “la ragazza crede di sposarsi soltanto con il suo amato e invece sposa una causa. È la guerra”. Così chiudeva Ferrari quel 4 maggio del 1993: “Solo chi arriva a Karlovac può ritenersi salvo. Dalla morte, non dall’incubo da cui è appena uscito”.