Dare forma all’abisso
Il ‘caso letterario’ di Vigdis Hjorth, andando al di là del voyeurismo pruriginoso
Oslo, studio di una commercialista. Il vecchio capofamiglia è morto da pochi giorni a causa di una caduta dalle scale e la vedova e i quattro figli si ritrovano per prendere definitivamente atto di un testamento che peraltro già conoscono: le case al mare sono destinate alle due sorelle minori, mentre una cifra inferiore al valore di mercato delle abitazioni liquiderà l’unico maschio e Bergljot, la sorella maggiore. Ma Bergljot si è portata dei fogli. Non per prendere appunti, ma perché lì sta scritto un testo che ha preparato per l’occasione, certa che la madre e le sorelle, per una volta, non oseranno fare scenate o andarsene senza lasciarla terminare. E difatti riesce a leggerlo, tra le loro più o meno timide proteste e il comprensibile imbarazzo della commercialista, denunciando (o, meglio, ribadendo) di essere stata vittima di abusi sessuali da parte del padre quando era bambina.
Con ‘Eredità’, ora tradotto anche in italiano presso Fazi, Vigdis Hjorth crea un caso letterario internazionale, anzitutto a causa dei numerosi punti di contatto tra la scrittrice e Bergljot, la narratrice e protagonista. E basti qui ricordare che un anno dopo la pubblicazione (l’edizione originale è del 2016), la sorella dell’autrice ha dato alle stampe una sorta di contro-romanzo in cui ne denuncia le disonestà raccontate e le sofferenze che ne sono derivate. Una vicenda immediatamente accostata a quella di un altro scrittore norvegese, Karl Ove Knausgård, che con il ciclo ‘La mia lotta’ sta risollevando la questione dell’opportunità di svelare i fatti personali delle persone legate all’autore: di chi sono le storie? Basta dichiarare di avere scritto un’opera di finzione per mettersi al riparo da polemiche e da grane giudiziarie? Interrogativi, tra l’altro, al centro di un libretto della danese Janne Teller (‘È la mia storia’, Feltrinelli), di cui ho parlato proprio su queste colonne (‘laRegione’, 9 gennaio 2020).
Sarà tuttavia il caso, una volta per tutte, di smetterla con il voyeurismo pruriginoso con il quale molti si ostinano a leggere l’autofiction: nel momento in cui uno scrittore prende la penna in mano e comincia a raccontare una storia, fosse anche la sua, opera delle scelte che lo iscrivono di fatto entro i confini della letteratura, la cui qualità è difficilmente misurabile, ma di certo slegata dalla sua più o meno stretta adesione alla realtà (sulla cui definizione si aprirebbe un altro discorso mica da poco).
La difficoltà di ascoltare. E di essere ascoltati
Il romanzo di Vigdis Hjorth va quindi accostato cercando di descriverne le caratteristiche letterarie; i meriti (molti) e i punti deboli (pochi, e in larga parte, temo, imputabili alla traduzione italiana). Ora, mi pare che il libro sia anzitutto dedicato alla difficoltà di ascoltare e di essere ascoltati. Bergljot, divorziata e madre di tre figli, da ventitré anni ha rotto i ponti con una famiglia d’origine che ha deciso di rimuovere l’indicibile, e in cui spicca la grettezza infantile della madre, che ha costruito tutta la sua esistenza sul dono effimero della bellezza; una donna frustrata per la sua incapacità di lasciare il marito per l’uomo che amava, e di conseguenza incapace di riconoscere l’orrore che l’avrebbe costretta a lasciarlo per forza: “insesto”, si ostinerà a dire nelle poche occasioni in cui sarà costretta ad affrontare l’argomento, con una spia linguistica che svela impietosamente il processo di rimozione. A Bergljot restano le confidenze agli amici Bo e Klara, e il rapporto in parte ritrovato con il fratello, pure vittima delle angherie paterne. Il romanzo indaga pertanto la necessità di convivere con il dolore e con i momenti di tregua che concede, qui affermata come piena capacità di aderire all’esistenza, avendo, prima di tutto, consapevolezza della sua finitudine: “Ho avuto la possibilità di vivere tutto questo”, si dice più volte Bergljot, ad esempio dopo avere semplicemente potuto tirare per le lunghe la colazione e letto i giornali, con la prospettiva di un fine settimana libero davanti a sé.
Ma a convincere, nel romanzo, è soprattutto la centralità della letteratura e dell’arte, vere e proprie porte d’accesso alla lettura del mondo; possibilità conoscitive per dare espressione all’indicibile e, forse, sentirsi meno soli. Così si spiegano i numerosi riferimenti letterari che Bergljot, non a caso critica teatrale (quindi dell’arte che unisce parola e gesto, testo e vita), convoca costantemente per tentare di dare forma all’abisso che si porta dentro fin dall’infanzia; una trama culturale da cui emerge, con particolare forza icastica, il momento in cui ricorda la performance ‘Rhythm 0’ di Marina Abramovic, dopo la quale il pubblico indietreggiò impaurito, incapace di reggere lo sguardo della persona sulla quale fino a poco prima aveva infierito: di fatto, il comportamento sfuggente del padre (e della madre) nei confronti di Bergljot per tutta una vita. Convince, infine, la struttura del romanzo, costruito su una giustapposizione di capitoli di lunghezza e di natura assai varie che scardina ogni logica temporale, a simulare il fluire dei pensieri della protagonista durante il percorso psicoanalitico seguito per anni. Pensieri resi da una lingua che torna ossessivamente su se stessa e sui medesimi temi, e sulla quale mi vedo costretto, non avendo letto il testo in lingua originale, a sospendere un giudizio (non del tutto positivo).