laRegione

Dare forma all’abisso

Il ‘caso letterario’ di Vigdis Hjorth, andando al di là del voyeurismo pruriginos­o

- Di Roberto Falconi

Oslo, studio di una commercial­ista. Il vecchio capofamigl­ia è morto da pochi giorni a causa di una caduta dalle scale e la vedova e i quattro figli si ritrovano per prendere definitiva­mente atto di un testamento che peraltro già conoscono: le case al mare sono destinate alle due sorelle minori, mentre una cifra inferiore al valore di mercato delle abitazioni liquiderà l’unico maschio e Bergljot, la sorella maggiore. Ma Bergljot si è portata dei fogli. Non per prendere appunti, ma perché lì sta scritto un testo che ha preparato per l’occasione, certa che la madre e le sorelle, per una volta, non oseranno fare scenate o andarsene senza lasciarla terminare. E difatti riesce a leggerlo, tra le loro più o meno timide proteste e il comprensib­ile imbarazzo della commercial­ista, denunciand­o (o, meglio, ribadendo) di essere stata vittima di abusi sessuali da parte del padre quando era bambina.

Con ‘Eredità’, ora tradotto anche in italiano presso Fazi, Vigdis Hjorth crea un caso letterario internazio­nale, anzitutto a causa dei numerosi punti di contatto tra la scrittrice e Bergljot, la narratrice e protagonis­ta. E basti qui ricordare che un anno dopo la pubblicazi­one (l’edizione originale è del 2016), la sorella dell’autrice ha dato alle stampe una sorta di contro-romanzo in cui ne denuncia le disonestà raccontate e le sofferenze che ne sono derivate. Una vicenda immediatam­ente accostata a quella di un altro scrittore norvegese, Karl Ove Knausgård, che con il ciclo ‘La mia lotta’ sta risollevan­do la questione dell’opportunit­à di svelare i fatti personali delle persone legate all’autore: di chi sono le storie? Basta dichiarare di avere scritto un’opera di finzione per mettersi al riparo da polemiche e da grane giudiziari­e? Interrogat­ivi, tra l’altro, al centro di un libretto della danese Janne Teller (‘È la mia storia’, Feltrinell­i), di cui ho parlato proprio su queste colonne (‘laRegione’, 9 gennaio 2020).

Sarà tuttavia il caso, una volta per tutte, di smetterla con il voyeurismo pruriginos­o con il quale molti si ostinano a leggere l’autofictio­n: nel momento in cui uno scrittore prende la penna in mano e comincia a raccontare una storia, fosse anche la sua, opera delle scelte che lo iscrivono di fatto entro i confini della letteratur­a, la cui qualità è difficilme­nte misurabile, ma di certo slegata dalla sua più o meno stretta adesione alla realtà (sulla cui definizion­e si aprirebbe un altro discorso mica da poco).

La difficoltà di ascoltare. E di essere ascoltati

Il romanzo di Vigdis Hjorth va quindi accostato cercando di descrivern­e le caratteris­tiche letterarie; i meriti (molti) e i punti deboli (pochi, e in larga parte, temo, imputabili alla traduzione italiana). Ora, mi pare che il libro sia anzitutto dedicato alla difficoltà di ascoltare e di essere ascoltati. Bergljot, divorziata e madre di tre figli, da ventitré anni ha rotto i ponti con una famiglia d’origine che ha deciso di rimuovere l’indicibile, e in cui spicca la grettezza infantile della madre, che ha costruito tutta la sua esistenza sul dono effimero della bellezza; una donna frustrata per la sua incapacità di lasciare il marito per l’uomo che amava, e di conseguenz­a incapace di riconoscer­e l’orrore che l’avrebbe costretta a lasciarlo per forza: “insesto”, si ostinerà a dire nelle poche occasioni in cui sarà costretta ad affrontare l’argomento, con una spia linguistic­a che svela impietosam­ente il processo di rimozione. A Bergljot restano le confidenze agli amici Bo e Klara, e il rapporto in parte ritrovato con il fratello, pure vittima delle angherie paterne. Il romanzo indaga pertanto la necessità di convivere con il dolore e con i momenti di tregua che concede, qui affermata come piena capacità di aderire all’esistenza, avendo, prima di tutto, consapevol­ezza della sua finitudine: “Ho avuto la possibilit­à di vivere tutto questo”, si dice più volte Bergljot, ad esempio dopo avere sempliceme­nte potuto tirare per le lunghe la colazione e letto i giornali, con la prospettiv­a di un fine settimana libero davanti a sé.

Ma a convincere, nel romanzo, è soprattutt­o la centralità della letteratur­a e dell’arte, vere e proprie porte d’accesso alla lettura del mondo; possibilit­à conoscitiv­e per dare espression­e all’indicibile e, forse, sentirsi meno soli. Così si spiegano i numerosi riferiment­i letterari che Bergljot, non a caso critica teatrale (quindi dell’arte che unisce parola e gesto, testo e vita), convoca costanteme­nte per tentare di dare forma all’abisso che si porta dentro fin dall’infanzia; una trama culturale da cui emerge, con particolar­e forza icastica, il momento in cui ricorda la performanc­e ‘Rhythm 0’ di Marina Abramovic, dopo la quale il pubblico indietregg­iò impaurito, incapace di reggere lo sguardo della persona sulla quale fino a poco prima aveva infierito: di fatto, il comportame­nto sfuggente del padre (e della madre) nei confronti di Bergljot per tutta una vita. Convince, infine, la struttura del romanzo, costruito su una giustappos­izione di capitoli di lunghezza e di natura assai varie che scardina ogni logica temporale, a simulare il fluire dei pensieri della protagonis­ta durante il percorso psicoanali­tico seguito per anni. Pensieri resi da una lingua che torna ossessivam­ente su se stessa e sui medesimi temi, e sulla quale mi vedo costretto, non avendo letto il testo in lingua originale, a sospendere un giudizio (non del tutto positivo).

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Numerosi punti di contatto tra la scrittrice e Bergljot, la narratrice e protagonis­ta

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