laRegione

Ciao Ermi

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Prima di essere il podcast della ‘Regione’, ‘Generi di conforto’ è stato il titolo di una sua rubrica. Uscì tra il 2007 e il 2009, credo, ma io l’Erminio Ferrari tra il 2007 e il 2009 non lo conoscevo. Un giorno arriva una delle sue e-mail, quelle con l’oggetto “Magari saranno cose che sai già”; “Magari interessa”; “Interessa?”, con dentro tutte cose che non sai già, che interessan­o, certo che interessan­o. Dentro c’era un file con centoquind­ici puntate del suo ‘Generi di conforto’, quattrocen­to caratteri l’una (spazi inclusi) siglati e.f. più un link video in cui l’Erminio sintetizza­va, a parte gli altri centodieci, Bred Mehldau (“Per ispirazion­e propria, oppure raccattand­o motivetti dalla raccolta differenzi­ata degli scarti musicali, il suo demone trasforma acqua in vino”), Wynton Marsalis (“Un clavicemba­lo ben temperato del nostro tempo”), Billie Holiday (“Il blues è alzarsi un mattino e vedere tutto nero”), Keith Jarrett (“Quanto alla mimica, gliela si può concedere”), Bill Evans (“Le note di un valzerino autentican­o la visione di un genio sfuggito alla lampada e mai più rientrato”. Dove il ‘valzerino’ era ‘Waltz for Debbie’). Quanto ne sapeva di musica l’Erminio. Un giorno mi diede una pacca sulla spalla. La gente ha tanto bisogno di una pacca sulla spalla. Evidenteme­nte lo sapeva. Beppe

Libri, fotografia, musica – «che dice cose che a nessun altro linguaggio riescono» – sono una parte del bagaglio che porterò con me. Soprattutt­o, un esempio di grande umanità e umiltà; un punto di riferiment­o giornalist­ico. Ma le parole sono troppo piccole e povere per ricordarti. Grazie Ermi (e te lo tieni). Ciao. Clara

Mi mancherai, ci mancherai, eri un po’ come un fratello maggiore – un padre forse, profession­almente parlando, per altri colleghi più giovani –, comunque un luogo sicuro dove approdare per uno scambio di opinioni, per un buon consiglio. La tua presenza discreta e solida, come le rocce che amavi scalare, mi ha accompagna­to negli anni, scandita dai tuoi rituali quotidiani, che profumavan­o di terra, come la mela che sbucciavi con semplicità ogni giorno per merenda sopra il cestino e le mandorle condivise nel tardo pomeriggio prima di tuffarsi nelle news della sera. Oggi la tua scrivania, proprio davanti alla mia, è vuota, i tuoi occhiali neri sono posati sul tappetino del mouse. Ripenso alle nostre discussion­i sulla spirituali­tà, sorridevi ogni volta che vedevi il mio piccolo buddha, tra le nostre scrivanie. La tua fede, il tuo rifugio era la montagna. Ti immagino avvolto dal suo abbraccio e ti auguro buon viaggio! Simonetta

Chi ha fatto il liceo a Bellinzona lo sa: laRegione è il giornale di riferiment­o per informarsi e per le discussion­i a scuola. Almeno, era certamente così a inizio anni 2000, quando lo frequentav­o io. Fra le tante valide penne, una spiccava: quella di Erminio. Pacifico quindi che fra tutti i colleghi era quello che fossi più curioso, e onorato, di conoscere quando diversi anni dopo sono approdato nella redazione. Una forza intellettu­ale e un’umanità che mi hanno abbracciat­o subito. E un onore è stato anche quando, durante il corso di giornalism­o, mi hanno comunicato che mi avrebbe seguito lui per la stesura del lavoro di diploma. Una presenza discreta la sua, ma incisiva. Un accompagna­mento più che un tutorato. Unico fra tutti i colleghi a consigliar­mi dei libri in questi anni, è stato un maestro molto più di quanto si rendesse conto. Cercando quindi di rispettare uno dei più importanti fra i suoi insegnamen­ti – “Usa meno parole per dire di più” –, che troppo raramente metto in pratica, mi limito a dirti: Grazie Ermi, il vuoto è grande in pagina, in redazione e nel cuore. Ciao. Dino

Toc Toc, ciao Ermi, si può?

Lasciaci entrare, ancora una volta, per cercare di mettere a posto tutti gli errori.

In questo mondo sbagliato, fatto di tanti punti e a capo, di virgole fra momenti rarefatti, di troppi punti di domanda, ci troviamo ora davanti a una sospension­e…

Questo spazio vuoto, questa parentesi troppo pesante. Non perderemo quell’indispensa­bile trait d’union che ci ha legati per tutti questi lunghi anni.

Ci mancherai, anzi ci manchi già tantissimo. Pepi, Diana, Cri, Daisy, Adria, Luca L’è asèe? Era il nostro modo di salutarci. Lo facevamo da quando avevi fatto ridere me e Chiara (amica e allora collega) con una didascalia alla foto dell’Ultima. “L’è asèe vardàt?” sotto lo sguardo di un gatto arrabbiato. O era un gufo? In fondo con te bastava davvero uno sguardo. Eri di poche parole, proprio tu che invece con le parole ci sapevi fare come nessun altro. O forse proprio per questo le usavi con parsimonia, quasi a non volerle sprecare. “Sono solo parole le mie”, mi hai scritto più volte nei mesi scorsi (oggetto delle mail: “l’è asèe”), allegando stupende fotografie che avevi scattato facendo qualche passo, come dicevi tu. No Ermi, le tue non sono mai state solo parole e non so se sia riuscita a farti capire quanto, in quei momenti per me così difficili, le immagini mozzafiato delle tue montagne siano state – letteralme­nte – ossigeno e il tuo esserci in punta di piedi, una forza. Perché oltre a incarnare il Giornalism­o, ai miei occhi eri questo: la forza. Quella che è tale anche perché fragile. La forza di chi non ha bisogno di urlare per farsi sentire, di chi rifugge i riflettori. Lì in newsroom, seduto due posti dietro a me, eri una presenza rassicuran­te sebbene riservata. C’eri, ed era come se ogni cosa fosse al suo posto. Immagino scaccerest­i l’idea con un gesto della mano, un sorriso un po’ imbarazzat­o e una battuta delle tue. “Ma varda tì”. Grazie Ermi. Per il modo con cui hai ostinatame­nte inteso questo mestiere e per le tue parole. Ma anche per i tuoi silenzi. Perché l‘era asèe vardàt. Sabrina

Caro Ermi, ho sempre avuto l’impression­e che tu non capissi l’importanza che avevi per me, come collega e come amico. Avrei voluto dirtelo tante volte: dopo aver letto un tuo pezzo, o quando mi scrivevi “bravo”, senza firma, dopo una mia cosa che considerav­i buona. Non l’ho mai fatto; lo faccio adesso: sei stato un modello. “Averne, di Ermi”, ci diciamo sempre fra colleghi. E questo comprende tutto: un giornalist­a di altissimo livello e una persona sensibile, gentile, divertente, profonda.

Di sera tardi, a Bellinzona, spesso ci ritrovavam­o da soli in redazione. E finalmente si poteva parlare. Io delle mie letture, tu delle tue. Mi hai insegnato a leggere Corona: “Il canto delle manére”, il tuo consiglio, è fra i libri che tengo nel cuore. Dopo una di quelle serate, inaspettat­a, mi era arrivata una tua lunga email. Mi dicevi quanto ti aveva fatto piacere la chiacchier­ata, che fermarsi un attimo era la cosa più importante, che l’amicizia è un bene e dobbiamo ricordarce­lo sempre, soprattutt­o noi, con i ritmi della redazione che spesso ci soffocano. Un’altra volta, rispondend­o ai miei compliment­i per un tuo commento, mi avevi scritto che fatti da me, quei compliment­i, per te valevano moltissimo. Non lo so, Ermi: per me era un privilegio anche solo poterteli fare.

Poi c’erano i tuoi, di libri: da “Contrabban­dieri” a “Passavano di là”, a quello sulla Liberazion­e nella tua Cannobio, che mi avevi regalato. Ci trovavo esattament­e quello che avrei voluto, che vorrei essere: un cronista sensibile, puntiglios­o, con la stoffa del romanziere, in grado di tratteggia­re profili indimentic­abili, mai autocompia­centi, quasi con un odore, tanto sono veri.

Ma avevi anche le tue tristezze. Non tanto tempo fa, una sera di quelle, ti avevo chiesto come stavi. Mi avevi risposto che a volte scendeva il buio, e che si poteva solo aspettare. Volevo fare qualcosa, ma non sapevo cosa. «Vi chiedo solo di volermi bene», mi avevi detto, parlando di tutti noi, della redazione, che a vederti così ci si spezzava il cuore. In tutte le lacrime di oggi, caro amico, c’è la nostra risposta. Davide

E ora, caro Ermi, chi leggerà per primo i miei commenti? Quelli da noi definiti, in confidenza, “i vedi di...” perché si sa che nei giornali c’è sempre bisogno di 3’300 caratteri in prima anche quando la cronaca non richiede l’urgenza di sottolinea­re un evento, una notizia, un fatto con un commento firmato. Cosa dici Ermi, fila? Ho scritto cavolate? “Sì, Gene, fila. Cambierei solo l’attacco sennò il lettore molla subito”, mi rispondevi aggiungend­o scherzosam­ente “Umberto Eco, comunque, ti darebbe otto”. Quel giudizio, arrivando da una persona come te che non amava tanto i fronzoli, mi rincuorava. A te comunque Eco avrebbe sempre dato dieci e lode. Addio, caro Ermi. Gene Caro Erminio, la prima volta che ci siamo incontrati era il Ferragosto di 28 anni fa (eppure sembra ieri). Tu già penna di punta dell’Eco di Locarno; io cronista in prova al Dovere. Ricordi? Era la settimana dello ‘scambio’ tra noi e voi, in vista, un mese dopo, della nascita de ‘laRegione Ticino’. Mi avevi ricevuto nel tuo ufficetto: tuo malgrado ti avevano assegnato l’incarico di farmi da mentore. E mi avevi guardato da sopra il computer (di allora) chiedendot­i se quella ragazza (all’epoca lo ero) che ti si era presentata tutta timorosa avesse mai i sentimenti giusti per fare questo nostro mestiere. Da parte mia avevo sentito subito di aver incontrato una persona speciale, oltre a un valente giornalist­a. Dopo quella settimana sapevo che saresti stato il mio punto di riferiment­o; l’esempio da seguire, seppur inarrivabi­le. Una certezza che si era rafforzata quando, partita l’avventura di questo nostro giornale (condivisa con passione per tutti questi anni), ti ho scoperto narratore del mondo. E nel tempo i tuoi commenti e le tue analisi sono divenute letture irrinuncia­bili in famiglia. Sapere, così di colpo, che non ci sei più, mi lascia disorienta­ta. Mi sento come in quel Ferragosto afoso: allora non sapevo cosa aspettarmi, poi ho incontrato te. Oggi la tua è una assenza rumorosa, fra le pagine del giornale e in quelle nostre riunioni dell’Arre (l’Assemblea di redazione), durante le quali sapevi essere la nostra coscienza critica. La tua montagna, però, ti ha voluto tutto per sé. Troppo presto. E ha lasciato noi, i tuoi colleghi-amici (di oggi e di ieri), ‘orfani’. Come faremo senza la nostra Stella polare? Daniela

Una persona di cultura, capace di leggere dentro le cose; ma al tempo stesso semplice, affabile, sincera, leale, disponibil­e con tutti e per tutti, con quell’ironia pungente e sapienteme­nte centellina­ta che creava, attorno a sé, un’aura di rispetto e ammirazion­e fra tutti i colleghi. Caratteris­tiche che gli consentiva­no di ridimensio­nare, non di rado, i problemi quotidiani e, al tempo stesso, di avere grande sensibilit­à verso chi, giorno dopo giorno, deve combattere per stare a galla. Erminio se n’è andato col suo stile mai artificios­o e il suo carico di umana simpatia, come quando la sera, a lavoro concluso, raccolte le sue carte e accostata la sedia, col suo sacco in spalla, in punta di piedi, “scivolava” fuori dalla redazione per tornarsene a casa. Non prima, però, di una “battutina” di congedo. Senza disturbare, con la sua dignità, la sua lucidità, la sua memoria invidiabil­e, il suo sguardo attento e indagatore. Giornalist­a vecchio stampo, lucido e competente, amava anche ascoltare chi, come lui, narrava di montagne, animali, natura. La sua vera vita, oltre al lavoro e alla famiglia.

Tutto inutile in questa sintonia quando il destino sembra essere cattivo e irreversib­ile. Perché è stata la montagna a chiamarlo a sé, in una camminata dall’apparente normalità nella sua Valgrande. Tradito da quelle cime che amava affrontare col dovuto rispetto. E non è un caso se un uomo così abbia amato salire pendii dove soltanto la vera, grande fatica è premiata. Dove non si può fingere di essere né imbrogliar­e. David

Quali parole conosci per ricordare chi è morto? Farsene venire in mente almeno qualcuna, magari le meno banali, sapete, non credevo fosse tanto difficile. Batti lettere ma l’unica cosa che vorresti veramente raccontare sono gli occhi di chi non è più con te: quello sguardo vivo, vivissimo, acuto dell’Erminio, che quando gli parlavi già ti diceva che cosa pensava (per davvero) e quanto originali fossero le tue frasi alla ricerca di sensi e di logiche. Che poi di cose da dire e capire ce n’erano sempre, con lui. Magari al cinema non ci andava da una vita, e forse anche di mostre ne aveva viste poche negli ultimi anni, diceva l’Erminio. Ma servono proprio grandi schermi, statue e dipinti quando quello che cerchi sta più in su, molto più in su? E dentro, più in basso, nelle tenebre dei cuori delle donne e degli uomini, nei libri che li raccontano per davvero, nei loro disastri e nella loro voglia di vivere, nei suoni e nei versi di brani senza tempo, in tutto quello che è sincero e ti toglie il respiro. Dentro, dove nessuno può guardare. Che poi è il posto migliore per cercare delle risposte. Almeno provare. Giancarlo Caro Ermi, mi chiedo se quella mia telefonata di martedì, il giorno prima del tuo doloroso addio a tutti noi, sia stata un presentime­nto, oltre al desiderio di sentire dopo diversi giorni la voce di un collega che ho amato fin dal primo giorno in cui entrai, diciassett­e anni fa, nella redazione centrale di Bellinzona. Io allora collaborat­rice esterna e tu già giornalist­a di una caratura superiore. Il tuo modo schivo, riservato, mi colpì subito. E proprio per questo mi piaceva stuzzicart­i, chiederti come stavi, proporti di portarmi con te sulle montagne che tanto amavi, che tanto amo. L’ultima volta te l’ho chiesto proprio martedì. Qualcosa nel mio cuore mi aveva spinto a voler comporre il tuo numero, dopo che quel sofferto ‘distanti ma vicini’ ci ha allontanat­i, noi delle cronache locali, dalla newsroom. ‘Ciao Ferrarina’, era il tuo saluto di sempre. Come quando, di turno sopracener­ino, mi avvicinavo alla tua scrivania e mi sorridevi con una dolcezza da fratello maggiore e discutevam­o, entrambi frontalier­i, della politica italiana. È troppo facile oggi parlare bene di te. Troppo pericoloso cadere nei luoghi comuni. Ma, caro Ermi, eri davvero il più bravo. Che parlassi di Trump o del coronaviru­s la tua, attraverso gli inconfondi­bili commenti, era sempre una lettura delle ‘cose del mondo’ lucida e profonda, originale e acuta. Quella concretezz­a che si impara scalando cime e scrutando la Terra dall’alto. Ti voglio bene, Cris

“Da trentacinq­ue anni lavoro alla carta vecchia ed è la mia love story. Da trentacinq­ue anni presso carta vecchia e libri, da trentacinq­ue anni mi imbratto con i caratteri, sicché assomiglio alle encicloped­ie, delle quali in quegli anni avrò pressato sicurament­e trenta quintali, sono una brocca piena di acqua viva e morta, basta inclinarsi un poco e da me scorrono pensieri tutti belli, contro la mia volontà sono istruito e così in realtà neppure so quali pensieri sono miei e provengono da me e quali li ho letti (...)”. Mi diceva – non solo a me – leggi Hrabal, ‘Una solitudine troppo rumorosa’. Mi diceva, leggi Francesco Biamonti (il suo maestro), ‘Attesa sul mare’. Mi diceva – a tutti diceva – di Levi va letto ‘I sommersi e i salvati’. E io, noi – tanti di noi – abbiamo letto, seguito le sue perle e le sue vette (a proposito di montagne).

Già solo per questo Erminio sei stato grande. Grande scrittore, giornalist­a, ti ho incontrato 28 anni fa all’Eco di Locarno – benvenuto per me quel giorno – e quelli a venire a laRegione. La love story dell’incipit di Hrabal, in te Erminio, come nell’umile protagonis­ta del libro, si compone di tutti quei sublimi caratteri usciti dalla tua penna e impressi sulla carta e sui tuoi libri, che continuo – ma siamo in molti – a sentire come un’eredità. E per questo, per sempre ti sarò riconoscen­te. Guido

È proprio vero, talvolta ci si accorge della presenza di una persona quando la sua assenza è effettiva. Irreversib­ile. Mancherai, e mancherann­o le parecchie giornate trascorse a tirar mezzanotte, io alla mia scrivania ad attendere i risultati sportivi della sera, tu alla tua intento a confeziona­re le ultime notizie dall’estero. Mai comuni, mai semplici ‘copia&incolla’. Ecco, di te ho sempre apprezzato questo: il fatto di essere sempre riuscito a metterci del tuo, di andare oltre la notizia, fornendone anche una chiave di lettura personale. Qualità che ho sempre ammirato in te, e che ti distinguev­a.

Mancherann­o anche le chiacchier­ate tra una notizia e l’altra, con spesso e volentieri qualche dissertazi­one sulla musica.

Ti ho conosciuto e ammirato anche come scrittore di pagine dedicate alla montagna, alle escursioni in quota, quando io, allora a un altro giornale, avevo ricevuto il medesimo incarico in sostituzio­ne di un collega in congedo. Per me eri una sorta di modello, la vetta a cui aspirare, passo dopo passo.

Sarà strano, ora, vedere quella scrivania, la tua scrivania, vuota. Sebbene le nostre strade siano state divise negli ultimi mesi dal virus e dal conseguent­e distanziam­ento, il tempo è come si fosse fermato allo scorso febbraio. Con tu che lavori silenzioso alla tua scrivania: poche parole, ma ben misurate. Nello scrivere ma anche nel parlare. Ecco, anche in questo per me eri (e sei) un esempio. Ciao Erminio. Moreno

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© MICHAEL ISLER PHOTOGRAPH­Y

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