laRegione

Una domanda, due risposte

- di Sascha Cellina

Lo si temeva, in fondo lo si sapeva. Il Covid è tornato. O meglio, non se n’è mai andato. E se la speranza era perlomeno che non si presentass­e una seconda volta con tanto impeto e meschinità, tale auspicio si sta rivelando una mera illusione, alimentata forse da un periodo di relativa (eccessiva) calma che ha permesso di tornare a vivere una certa normalità. Nel lavoro, nella scuola, nella maggior parte delle attività quotidiane. E nello sport. In quello d’élite, nella maggior parte delle discipline si è persino potuto riprendere la stagione interrotta. Tra ferrei protocolli, limitazion­i e qualche quarantena, si sono conclusi ad esempio molti dei principali campionati europei di calcio, così come sono ripartite le competizio­ni di ciclismo, atletica, tennis e il resto. Il tutto senza particolar­i scossoni, tanto che i nuovi campionati sono iniziati accompagna­ti da un cauto ottimismo. Che ora però vacilla, se non è già crollato.

Il numero di contagi è infatti ripreso a salire vertiginos­amente in tutto il mondo e lo sport si sta rendendo conto che i suoi protocolli di protezione non lo rendono immune. Anzi, posto che chiudere ermeticame­nte fuori dal mondo sportivo il virus è praticamen­te impossibil­e – se non attraverso una “bolla” come quella creata a Disney World dalla Nba, ma difficilme­nte replicabil­e per strutture e costi – e che nella maggior parte delle discipline il contatto, per quanto in alcuni casi limitato, non può essere evitato, lo sport per certi versi presta il fianco al Covid innescando una serie di reazioni a catena che ne minano il regolare svolgiment­o, tra squadre costrette a mandare in campo le selezioni giovanili, altre private temporanea­mente di elementi più o meno importanti, altre ancora escluse da una determinat­a competizio­ne (...)

(...) o costrette a tour de force per recuperare le partite rinviate a causa di una quarantena (propria o di altre compagini). Notizie del genere, così come la chiusura di determinat­i eventi al pubblico (l’ultima ad esempio riguarda le gare della Coppa del mondo di sci in Svizzera) o peggio l’annullamen­to (in Ticino l’ultimo a saltare in ordine di tempo è il meeting di nuoto della Turrita) sono ormai all’ordine del giorno. Per restare nel nostro cantone, solo nell’ultima settimana sono finiti in quarantena Gdt Bellinzona, Acb, Lugano di hockey e di basket.

È vero, si sapeva che il coronaviru­s sarebbe entrato a far parte del gioco, ma forse è davvero ora di chiedersi fino a che punto abbia senso giocare. E se nel caso dello sport profession­istico la risposta è già scritta in tutti gli sforzi, finanziari e non, che autorità, federazion­i, società e giocatori stessi hanno intrapreso per cercare di evitare un ulteriore stop che nella maggior parte dei casi significhe­rebbe fallimento, con tutte le conseguenz­e del caso legate anche a chi di sport ci campa pur non scendendo in campo, altrettant­o scontata – per quanto nel senso opposto e per questo dolorosa – appare la risposta in ambito amatoriale, consideran­do anche che molti dei focolai emersi in Ticino erano legati a compagini del calcio regionale. E in un momento nel quale i Paesi che ci stanno attorno sono arrivati, chi più chi meno, a dire alla gente cosa fare e non fare in casa propria, davvero riteniamo di non poter rinunciare a una delle nostre libertà (che per quanto importante rimane un passatempo) per provare a preservarn­e altre ben più fondamenta­li?

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