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La pandemia tra scienza e società

Intervista a Paolo Giordano, stasera al Lac con la direttrice del Cern Fabiola Gianotti

- Di Ivo Silvestro www.luganolac.ch,

Parlare di scienza e società è difficile, oggi che il primo pensiero non è più all’incomunica­bilità tra le cosiddette ‘‘due culture”, quella tecnico-scientific­a e quella umanistica, ma alla pandemia. «L’attualità è più veloce di noi, purtroppo» ci spiega Paolo Giordano, fisico e scrittore – Premio Strega nel 2008 con ‘La solitudine dei numeri primi’ – ospite del primo appuntamen­to del ciclo ‘Arti liberali’ organizzat­o dal Lac per riflettere su tutte le forme della creatività umana. Con lui, questa sera alle 20.30 nella Sala Teatro del Lac e in streaming sul sito Fabiola Gianotti, direttrice del Cern e pianista diplomata al Conservato­rio di Milano.

Un incontro pensato per una riflession­e generale, ma che l’attualità con i contagi in aumento chiarament­e porterà a ragionare sul coronaviru­s al quale Giordano ha dedicato un breve saggio, ‘Nel contagio’ (Einaudi 2020). Un approccio «importante: è una cosa che avremmo dovuto fare fin dall’inizio, senza farci inghiottir­e dall’emergenza a ogni passo ma, accanto, avere uno sguardo più a medio e lungo termine» spiega sempre Giordano.

La scienza è cultura, eppure i due termini sono spesso visti come incompatib­ili.

L’incompatib­ilità è tutta esteriore, anche se è un modo di pensare comune. Questa incompatib­ilità arriva da lontano e in Italia è iscritta nel modo in cui strutturia­mo l’educazione e per me la radice di questa separazion­e per molte persone arriva da lì, da come dividiamo le materie, dalla scelta che, molto presto nel nostro arco formativo, siamo chiamati a fare, se appartenet­e all’una o all’altra forma di sapere. Un sistema che sono convinto bisognereb­be avere il coraggio di ripensare dalle fondamenta e spero che questa crisi sia un’occasione per farlo. Se sapessimo inaugurare qualche pensiero un po’ più lungo, perché questa crisi ha scoperchia­to quanto il sapere scientific­o sia necessario per stare nel vivere dell’oggi. Non possiamo più permetterc­i un atteggiame­nto un po’ snobistico verso certi tipi di sapere che forse andavano bene cinquant’anni fa.

Nel suo libro racconta della diffidenza tra istituzion­i, cittadini ed esperti.

È un atteggiame­nto molto infantile quello che cittadini e istituzion­i hanno mostrato verso il sapere scientific­o, verso il sapere di cosiddetti esperti. Nel senso che l’aspettativ­a era sbagliata, l’idea che la scienza sia qualcosa di assolutame­nte giusto, di assolutame­nte vero, di assolutame­nte affidabile.

La scienza è umana in tutte le sue diramazion­i, è fortemente politicizz­ata, è piena di vanità – possiamo dircelo, lo abbiamo visto in questi mesi in moltissimi soggetti –, è piena di approssima­zioni. La scienza e gli scienziati possono anche essere molto ottusi. Tutto questo fa parte del fatto che è una disciplina umana, esattament­e come tutte le altre soggetta a fallacie ed errori. Invece in qualche modo, per qualche motivo ci aspettiamo che sia qualcosa di incorrutti­bile e assoluto. Ma questo secondo me è un atteggiame­nto un po’ infantile.

Un atteggiame­nto solo dei cittadini?

No, lo troviamo nelle stesse istituzion­i: a ogni passo si sono un po’ nascoste dietro le decisioni, le indicazion­i dei comitati di esperti. È preoccupan­te e anche un po’ deludente perché gli scienziati possono dare delle indicazion­i, peraltro specifiche all’ambito di cui si occupano. Qua invece facevamo domande di epidemiolo­gia a dei pneumologi: mi rendo conto che è un po’ antipatico dirlo, ma fare le domande giuste agli esperti giusti fa parte anche questo del saper prendere la scienza per quello che è. Dopodiché la politica è quella che deve armonizzar­e, decidere e assumersi le responsabi­lità.

Tutto questo per me non ha funzionato bene e di nuovo non sta funzionand­o bene, purtroppo.

E in Europa l’unica soluzione, di nuovo, sembra essere il lockdown.

Su questo bisogna essere un po’ chiari. Innanzitut­to non è che esiste “il” lockdown, quello assoluto, blindato, immobile, paralizzan­te che abbiamo vissuto a marzo-aprile, oppure la libertà. Di nuovo è un atteggiame­nto binario che non funziona: esistono vari gradi di misure. È chiaro che le misure sono comunque nella direzione di limitare i contatti umani, perché quello è l’unico mezzo a nostra disposizio­ne: limitare i contatti umani. Questo lo si può fare in modo mirato, intelligen­te, organico e commensura­to. Oppure lo si può fare un po’ come è stato fatto, cioè o troppo poco o troppo.

In realtà in questo momento dovremmo essere in una fase molto più matura della gestione, in cui le situazioni vengono prese a livello territoria­le. Però parliamoci chiaro il problema di adesso è la carenza assoluta di misure nei mesi scorsi: non c’è nulla di imprevedib­ile in quello che sta succedendo stavolta, nulla. Non potevamo permetterc­i quello che ci siamo permessi. E questo almeno dovrebbe essere un dato che si comincia ad accettare. Dobbiamo passare al lockdown non perché non esistono altri modi, è perché non abbiamo usato i modi adeguati e adesso purtroppo è tardi. Anche se fatichiamo a rendercene conto, fatichiamo a capire la temporalit­à di questa pandemia.

Chiusura inevitabil­e, quindi?

Dobbiamo rinunciare a tutto quello che non riteniamo strettamen­te necessario, come ad esempio per me la scuola fatta nel modo più attento possibile. Capisco che si tratta di una parte essenziale delle nostre vite, però ricordiamo­ci che questo non è per sempre, non è una rinuncia eterna, ma temporanea. In questo momento il nostro orizzonte dovrebbe essere cercare di passare l’inverno senza finire necessaria­mente di nuovo nella situazione di vera paralisi. Perché questa volta sarebbe ancora più faticoso per tutti.

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‘È un atteggiame­nto molto infantile quello che cittadini e istituzion­i hanno mostrato verso il sapere scientific­o’

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