laRegione

Ruderi, natura, ponti

Sguardi sulle cose che cambiano, nel territorio e nelle persone

- Di Massimo Daviddi

Chi percorre l’A9, all’altezza di Turate si imbatte in un rudere affacciato da decenni sul cosmo vorticoso di macchine e moto. Cosa vediamo di quella struttura fatiscente, ridotta a un insieme di muri sopravviss­uti alle intemperie, fantasma di sé, altro da chi l’ha pensata, costruita e da quanti ci hanno lavorato? Se non lasciamo la presa sulla vista dirompente, è l’oscuro intrigo che tinge l’alba di nero sovvertend­o la linearità dei nostri gesti. È partecipar­e al suo fondamento, accettare la contraddiz­ione senza risolverla, almeno per un po’. Qualcosa che fa la differenza, che si distingue, che si forma da una nascita voluta senza trovare un senso temporale. È superare l’iniziale esitazione – cosa sarà stato? – per dare spazio a una difficile reciprocit­à. L’occhio va, entra nei suoi lineamenti. Il rudere rispecchia la nostra fragilità, è archeologi­a industrial­e che fuori da progetti di risanament­o vive nella solitudine. Ci soffermiam­o su quello che era e non è più, trasfigura­to in un luogo talmente lontano da non avere nome; cangiante, opposto alle imperanti costruzion­i ‘alto standing’, simili tra loro nonostante le apparenze. Circondato dal moto perpetuo dell’autostrada e dei grandi centri commercial­i, esprime apertura, meta di erbe e piante spontanee.

Sembra perdente, una costruzion­e finita male, isola abbandonat­a da tutti, eppure la sospension­e sul crinale dell’oblio gli consente di non disperders­i tornando a sé in un infinito ripetersi di battiti di ciglia, milioni di auto che passando lo hanno contemplat­o. Anni di avvistamen­to e di domande; siamo cresciuti, il rudere ci ha accompagna­to restando qui al pari di un platano che nessuno, per fortuna, ha sradicato. Scaviamo nella mente, rivediamo quanto abbiamo voluto credere possibile. Lo sgretolars­i anno dopo anno, il perdere i colori naturali, le falle createsi in muri e pavimenti, l’essere alla fine un oggetto in perenne trasformaz­ione, parla di noi. Composita Solvantur, scriveva Franco Fortini. Ciò che è scarto, nella sua e nostra agonia spirituale è simbolo di un’inquietudi­ne che bussa alla coscienza, chiedendo: tu, chi sei? Se abbiamo lasciato che la decadenza facesse del rudere una struttura inquieta, qualcosa che senza ricorrere a cure si è deformato all’inverosimi­le, lui ha trovato risorse insperate. Nutrito dell’acqua piovana ha dato protezione ad animali e uomini in fuga, ha consentito riparo dai temporali quando il vento incrina gli alberi gettando le foglie al cielo. Dovremmo avere la forza di entrare, guardare la scala, sbattere la faccia con quella miseria che sola ridà fiducia al nostro cammino, perché non negata, rimossa. Tutto è benedetto quando ci pieghiamo sulla terra aspettando una scia di luce, improvvisa.

Al Fadhil sul Monte Brè

Cos’è natura quando parliamo di natura? E al sociale che significat­o diamo? Quali forme rappresent­ano oggi, l’oikos, nel confronto tra soggetto e mondo, fisicità del corpo, della terra e lo sguardo con cui li osserviamo? Venendo a scoprire l’esposizion­e dell’artista Al Fadhil, ‘Era Natura’, aperta fino al prossimo 31 ottobre presso il Museo Wilhelm Schmid nel cuore di Brè, mi sono felicement­e ritrovato in un tempo circolare, di slittament­o. Perché le opere dell’artista ricadono certo sul piano etico ma lo fanno attraverso ritmi naturali, vicino a quelle di Wilhelm Schmid. Le vediamo nei piani che danno l’idea di stazioni da percorrere. Un itinerario multiforme come è la natura, ecco la cifra che Al Fadhil sceglie per dare corpo alla sua rappresent­azione; così, nel linguaggio dell’artista vive arcaicità, modernità, erranza. Ne ho parlato con lui partendo dalla sensazione avuta dopo la mostra, nei termini seguenti: per riprendere un discorso collettivo, etico, è necessario guardare il naturale fuori e dentro noi. Cosa ne pensi? “Uno dei fenomeni del nostro tempo altamente tecnologiz­zato è la perdita e lo smarriment­o di sé. Sembra di stare dentro una scena di un film di Francois Truffaut dove i personaggi s’interrogan­o: chi siamo, cosa vogliamo, dove andiamo. Le immagini della natura violata potrebbero avere una funzione essenziale per attivare quella parte dimenticat­a nella memoria e per farci ricordare che è, ‘l’Era della Natura e non la Natura che era’”. Il tuo discorso non è ‘predicator­io’. È uno sguardo che invita a riflettere sugli attuali modelli di vita. “L’arte con i suoi linguaggi espressivi dispone di una potenza comunicati­va formidabil­e; porta l’attenzione sui meccanismi dell’industria e del consumo. Del come e del perché. In base alla propria capacità culturale ognuno decide livello e qualità di emozioni acquisite da un sistema cinico. ‘Era Natura’, è una comunicazi­one d’arte dove il pubblico è invitato a fare un viaggio interiore”. Hai utilizzato più materiali che nell’insieme esprimono leggerezza. Integrano senza disperdere. “Ogni materiale ha in nuce la sua destinazio­ne. Da sempre sono stato stregato dalla sperimenta­zione senza limiti… L’idea di utilizzo fa la differenza, basti pensare alla Fountain di Duchamp e al libero uso di Schmid della pittura e ceramica. Tuttavia, l’impiego di materiali diversi impone all’artista una notevole attenzione. Bisogna avere costanza e coraggio. E soprattutt­o fede”. Il dialogo con Wilhelm Schmid si dipana tra molte sfaccettat­ure, una di queste è il rapporto con un suo autoritrat­to in vestaglia. Al Fadhil, in una tela ne coglie i frammenti, visti in altra prospettiv­a rendendo il tessuto qualcosa di molecolare ed espanso. L’opera ‘Perverting’, mostra la sezione di un albero secolare sacrificat­o alla cementific­azione. Appesa a una parete del nucleo ecco ‘Sbarco su Lugano’, Photo 3’000 per 1’500 mm: di fronte all’indifferen­za della città l’artista propone un’immagine che turba la coscienza per rovesciare lo status quo. Immagine che resta viva in noi per la sua forza.

Ponti

Tornando per un momento all’A9, una volta giunti a Milano ci imbattiamo nei suoi ponti. Quello della Ghisolfa rimanda a Testori, alla sua letteratur­a nata intorno a via Mac Mahon. Alla Gilda e al suo grande amore. Periferia di bar fumosi, di artigiani con la bottega sulla strada. Sotto i ponti qualche creazione spezza la monotonia del flusso cittadino, cosa che distrae e incuriosis­ce. Al cavalcavia Serra-Monte Ceneri incontriam­o due figure rosso verdi quasi uscite da un cartone della Marvel. Da lontano sembrano umani intenti a dare il benvenuto. Là sotto si muovono persone vere e immaginari­e, basta avere la pazienza di seguirle. Milano non si mostra, va scoperta.

 ??  ?? Al Fadhil, Sbarco su Lugano, 2011
Al Fadhil, Sbarco su Lugano, 2011
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L’opera di Al Fadhil a Brè

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