E la demografia dove la mettiamo nel dibattito su clima e ambiente?
Eravamo 3 miliardi nel 1950. Oggi siamo più del doppio. Nel 2050 saremo 10 miliardi. Ma se ne parla poco
Nel dibattito sul clima c’è un convitato di pietra: la demografia. Dell’aumento della popolazione e della sua incidenza sui cambiamenti ambientali si discute certo fra specialisti. Ma raramente il tema compare sulla grande scena pubblica. Eppure dovrebbe imporsi come centrale in forza anche solo dei numeri: sul pianeta eravamo meno di 3 miliardi di esseri umani negli anni ’50; oggi siamo oltre 7 miliardi; secondo le stime dovremmo raggiungere i 10 miliardi nel 2050; e nel 2100 dovrebbe aggiungersi un altro paio di miliardi. La prima domande che viene alla mente è: possiamo nutrire tanta gente? Teoricamente sì, secondo gli addetti ai lavori. Se ci sono ancora tanti affamati è perché la distribuzione è squilibrata: in Occidente sprechiamo alla grande, mentre nel Terzo Mondo spesso manca il minimo indispensabile. Vale non solo per il cibo, ma per tutto. Da qui la teoria secondo la quale non è primariamente un problema di “troppa gente”, ma di distribuzione più equa delle risorse. Che si traduce, ridotta all’osso, alla richiesta ai paesi sviluppati di fare uno, anzi due passi indietro nei consumi, permettendo ai paesi poveri di farne mezzo avanti. Si tenderebbe così verso un minore squilibrio e nel contempo si allevierebbe la pressione sull’ambiente in generale. Una dottrina che viene detta “dell’utilitarismo medio”, che punta all’innalzamento del benessere medio dell’umanità, piuttosto che sulla crescita generale (“utilitarismo totale”). Forse sulla carta funziona. Nella realtà ci sono alcuni ostacoli da superare. E non di poco conto. Bisogna innanzitutto convincere le popolazioni dei paesi più avanzati a retrocedere, cioè ad accettare una decrescita ragionata in termini di consumi. Tra colpevolizzazione spinta, movimenti ambientalisti, norme restrittive e interessi industriali (come ad esempio la sostituzione del parco veicoli a combustione con veicoli elettrici) si può anche pensare di riuscirci, almeno in parte (anche se resta da capire come produrre in modo “green” tutta l’energia elettrica necessaria). Meno facile è convincere chi non ha ancora raggiunto il benessere conosciuto in Occidente a rinunciarvi. Anche perché la spinta verso maggiori consumi in questi stessi paesi avanza proprio sull’onda della spinta demografica: la popolazione africana, solo per fare un esempio, dovrebbe raddoppiare di qui al 2050 (raggiungendo i 2 miliardi), contro una crescita media annuale dell’Europa intorno allo 0,4 % all’anno. Questo aumento si accompagna, inevitabilmente, ad una crescita della domanda, spesso e volentieri proprio nei settori a forte impatto ambientale (per certi versi le migrazioni si possono spesso ricollegare a questo meccanismo). I fautori dei nuovi equilibri sostengono che si possono conciliare le diverse esigenze con politiche coordinate a livello globale. Ma qui l’odore dell’utopia si fa molto forte. Basta guardare alle politiche di accaparramento delle ricorse di certi paesi (a cominciare dalla Cina in Africa) per rendersi conto che la modalità dominante è semmai quella della competizione. Con un accresciuto rischio di scontro. In questo contesto continua la crescita demografica complessiva, con relativa pressione sulle risorse. C’è chi ritiene che una risposta potrà venire dalla tecnologia, che in effetti ha già dimostrato di poter migliorare notevolmente la situazione in vari ambiti (dall’agricoltura ai trasporti). Ma è una corsa contro il tempo. E intanto la popolazione del pianeta cresce, chiedendo più cibo, più beni, più spazio, più opportunità. E da che mondo è mondo queste sollecitazioni non hanno mai seguito un percorso lineare comune e armonioso, ma spesso e volentieri hanno generato conf litti, con conseguenze devastanti in termini umani. Oggi le ricadute potrebbero essere ancora più distruttive sul piano ambientale. Con queste premesse possiamo semplicemente glissare sui problemi demografici e sui loro effetti, cullandoci in visioni ottimistiche senza dubbio nobili, ma quanto realistiche? L’impressione è che il tema del controllo delle dinamiche demografiche rimanga ideologicamente sensibile, perché chiama in causa sensibilità religiose e politiche che potrebbero accentuare, piuttosto che ridurre, i motivi di conf litto fra culture, comunità, etnie. O forse, più semplicemente, non si sanno che pesci pigliare e si preferisce affidarsi ad un “wishful thinking” (pensiero speranzoso) che rinforza una certa visione (la “decrescita felice”) e promette che alla fine “tutti vivranno felici e contenti (o quanto meno “accontentandosi”)”. Ma siamo sicuri che potranno davvero esserlo tutti i 12 miliardi di abitanti che vivranno nel 2100 su questo piccolo, complicato e turbolento pianeta? O che decrescita prima o poi sarà, anche demografica. Ma non felice. Bensì sanguinosa e mortifera.
*opinionista