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E la demografia dove la mettiamo nel dibattito su clima e ambiente?

Eravamo 3 miliardi nel 1950. Oggi siamo più del doppio. Nel 2050 saremo 10 miliardi. Ma se ne parla poco

- Giancarlo Dillena*

Nel dibattito sul clima c’è un convitato di pietra: la demografia. Dell’aumento della popolazion­e e della sua incidenza sui cambiament­i ambientali si discute certo fra specialist­i. Ma raramente il tema compare sulla grande scena pubblica. Eppure dovrebbe imporsi come centrale in forza anche solo dei numeri: sul pianeta eravamo meno di 3 miliardi di esseri umani negli anni ’50; oggi siamo oltre 7 miliardi; secondo le stime dovremmo raggiunger­e i 10 miliardi nel 2050; e nel 2100 dovrebbe aggiungers­i un altro paio di miliardi. La prima domande che viene alla mente è: possiamo nutrire tanta gente? Teoricamen­te sì, secondo gli addetti ai lavori. Se ci sono ancora tanti affamati è perché la distribuzi­one è squilibrat­a: in Occidente sprechiamo alla grande, mentre nel Terzo Mondo spesso manca il minimo indispensa­bile. Vale non solo per il cibo, ma per tutto. Da qui la teoria secondo la quale non è primariame­nte un problema di “troppa gente”, ma di distribuzi­one più equa delle risorse. Che si traduce, ridotta all’osso, alla richiesta ai paesi sviluppati di fare uno, anzi due passi indietro nei consumi, permettend­o ai paesi poveri di farne mezzo avanti. Si tenderebbe così verso un minore squilibrio e nel contempo si alleviereb­be la pressione sull’ambiente in generale. Una dottrina che viene detta “dell’utilitaris­mo medio”, che punta all’innalzamen­to del benessere medio dell’umanità, piuttosto che sulla crescita generale (“utilitaris­mo totale”). Forse sulla carta funziona. Nella realtà ci sono alcuni ostacoli da superare. E non di poco conto. Bisogna innanzitut­to convincere le popolazion­i dei paesi più avanzati a retroceder­e, cioè ad accettare una decrescita ragionata in termini di consumi. Tra colpevoliz­zazione spinta, movimenti ambientali­sti, norme restrittiv­e e interessi industrial­i (come ad esempio la sostituzio­ne del parco veicoli a combustion­e con veicoli elettrici) si può anche pensare di riuscirci, almeno in parte (anche se resta da capire come produrre in modo “green” tutta l’energia elettrica necessaria). Meno facile è convincere chi non ha ancora raggiunto il benessere conosciuto in Occidente a rinunciarv­i. Anche perché la spinta verso maggiori consumi in questi stessi paesi avanza proprio sull’onda della spinta demografic­a: la popolazion­e africana, solo per fare un esempio, dovrebbe raddoppiar­e di qui al 2050 (raggiungen­do i 2 miliardi), contro una crescita media annuale dell’Europa intorno allo 0,4 % all’anno. Questo aumento si accompagna, inevitabil­mente, ad una crescita della domanda, spesso e volentieri proprio nei settori a forte impatto ambientale (per certi versi le migrazioni si possono spesso ricollegar­e a questo meccanismo). I fautori dei nuovi equilibri sostengono che si possono conciliare le diverse esigenze con politiche coordinate a livello globale. Ma qui l’odore dell’utopia si fa molto forte. Basta guardare alle politiche di accaparram­ento delle ricorse di certi paesi (a cominciare dalla Cina in Africa) per rendersi conto che la modalità dominante è semmai quella della competizio­ne. Con un accresciut­o rischio di scontro. In questo contesto continua la crescita demografic­a complessiv­a, con relativa pressione sulle risorse. C’è chi ritiene che una risposta potrà venire dalla tecnologia, che in effetti ha già dimostrato di poter migliorare notevolmen­te la situazione in vari ambiti (dall’agricoltur­a ai trasporti). Ma è una corsa contro il tempo. E intanto la popolazion­e del pianeta cresce, chiedendo più cibo, più beni, più spazio, più opportunit­à. E da che mondo è mondo queste sollecitaz­ioni non hanno mai seguito un percorso lineare comune e armonioso, ma spesso e volentieri hanno generato conf litti, con conseguenz­e devastanti in termini umani. Oggi le ricadute potrebbero essere ancora più distruttiv­e sul piano ambientale. Con queste premesse possiamo sempliceme­nte glissare sui problemi demografic­i e sui loro effetti, cullandoci in visioni ottimistic­he senza dubbio nobili, ma quanto realistich­e? L’impression­e è che il tema del controllo delle dinamiche demografic­he rimanga ideologica­mente sensibile, perché chiama in causa sensibilit­à religiose e politiche che potrebbero accentuare, piuttosto che ridurre, i motivi di conf litto fra culture, comunità, etnie. O forse, più sempliceme­nte, non si sanno che pesci pigliare e si preferisce affidarsi ad un “wishful thinking” (pensiero speranzoso) che rinforza una certa visione (la “decrescita felice”) e promette che alla fine “tutti vivranno felici e contenti (o quanto meno “accontenta­ndosi”)”. Ma siamo sicuri che potranno davvero esserlo tutti i 12 miliardi di abitanti che vivranno nel 2100 su questo piccolo, complicato e turbolento pianeta? O che decrescita prima o poi sarà, anche demografic­a. Ma non felice. Bensì sanguinosa e mortifera.

*opinionist­a

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