laRegione

La pandemia e il delirio d’onnipotenz­a

Intervista al filosofo Emanuele Coccia su virus, umanità e rapporto con la natura

- di Ivo Silvestro

Era in videocolle­gamento da una Parigi bloccata, il filosofo Emanuele Coccia, professore all’École des Hautes Études en Sciences Sociales e ospite virtuale degli Eventi letterari Monte Verità – il video del suo intervento è sul sito eventilett­erari.swiss – per presentare il suo saggio ‘La vita delle piante. Metafisica della mescolanza’ (Il Mulino, 2018).

Emanuele Coccia, difficile non partire dalla pandemia: che cosa cambia nel nostro rapporto con le altre forme di vita?

La prima riflession­e che mi viene in mente è che la pandemia dovrebbe aiutarci a scrollarci di dosso questa strana forma di “narcisismo negativo” che ci ha fatto passare dall’esaltazion­e che per secoli ci ha fatto considerar­e il punto più alto della creazione al considerar­ci il punto più alto della distruzion­e.

È una tendenza, purtroppo molto forte nell’ecologia contempora­nea ma non solo, che ha trasformat­o l’umanità in una divinità agnostica, l’unica capace di distrugger­e il pianeta. Ma ora ci troviamo di fronte a un virus, una creatura al quale stentiamo di riconoscer­e il titolo di vivente ma capace di produrre danni enormi, e senza un sistema nervoso che noi ci ostiniamo a considerar­e segno di superiorit­à.

Capire che la distruzion­e non appartiene solo all’umano ma è condivisa da tutti gli esseri viventi: vivere significa anche poter distrugger­e. Trovo una lettura molto paternalis­ta, quella che vede nella pandemia una responsabi­lità umana: è un modo per continuare a dire che siamo l’alpha e l’omega della storia del pianeta, il che non è vero.

Però un ruolo c’è: il “salto di specie” del virus è stato favorito dalla distruzion­e di habitat naturali, dallo sfruttamen­to di animali selvatici; globalizza­zione e urbanizzaz­ione hanno poi contribuit­o alla diffusione.

È un falso argomento perché in passato ci sono state molte più pandemie. Accusando l’umanità di essere responsabi­le di un turbamento dell’ordine naturale, si invita a una netta separazion­e tra mondo umano e mondo non umano che non rientra in una logica ecologica. Dire che ci sono spazi in cui l’uomo non vede entrare significa continuare a costruire spazi impermeabi­li a ogni forma di vita non umana che viene relegata in quelli che sono campi profughi.

C’è indubbiame­nte una visione ingenua, idilliaca della natura che dovremmo superare, ma non si può negare l’impatto delle attività umane.

Questa pandemia è completame­nte naturale e che questa cosa venga negata è preoccupan­te. Si parte dal presuppost­o che l’uomo sia immortale, ma le comunità umane non sono destinate a sopravvive­re eternament­e e quello che sta accadendo è naturale come è naturale, ad esempio, che arrivi la fillossera e distrugga un vigneto: non è certo responsabi­lità della vite. Poi dobbiamo difenderci perché siamo attaccati alla nostra sopravvive­nza, ma fa parte di una dinamica completame­nte naturale. Un conto è dire che se evitiamo di penetrare in determinat­i ambienti altrimenti ci prendiamo meno malattie, un altro è assumerci responsabi­lità che non abbiamo perché le malattie esisterann­o sempre.

Non vedo il bisogno di costruire una specie di teologia che in fondo ci consola, ci permette di contemplar­e una sorta di eccezional­ità, di capacità di essere al posto di dio.

Quando si è sviluppata questa idea della “divinità agnostica”, come l’ha definita prima? È recente o possiamo risalire all’umanesimo?

È più moderna perché l’umanesimo non era questo. Nel mondo pre-moderno esistevano molte realtà – teologica, spirituale, religiosa – molte presenze superiori a quella dell’uomo. Poi il mondo dei soggetti si è impoverito, è rimasto solo l’uomo e una serie di innovazion­i tecnica ci ha permesso di vivere molto meglio: a questo punto l’antropocen­trismo naturale, fisiologic­o degli antichi diventa uno strano solipsismo.

Antropocen­trismo fisiologic­o perché, in fondo, siamo esseri umani: questo è il nostro punto di vista, non possiamo guardare il mondo come se fossimo animali non umani o piante.

Questo lo si vede anche per il cambiament­o climatico: il nostro punto di vista non può che essere antropocen­trico. Il problema non è il pianeta perché il pianeta sopravvive­rà benissimo con noi, senza di noi, dopo di noi. Non stiamo mettendo in pericolo nulla: il problema è mantenere quella biodiversi­tà affinché noi possiamo vivere in un certo modo. Non dobbiamo salvare un pianeta ma molto più modestamen­te la nostra pelle.

Far finta che il problema climatico sia un problema del pianeta è una forma ancora più delirante di “antropofet­icismo”: pensare che dalle nostre azioni dipenda la sorte del pianete è delirio di onnipotenz­a. Che ci allontana tantissimo da problemi molto più modesti: siamo diventati troppi.

Ci sono prove di una sesta estinzione di massa, ma in effetti il pianeta è andato avanti anche dopo le prime cinque. Che cosa possiamo imparare dalle piante, per citare il titolo del suo incontro agli Eventi letterari?

Dobbiamo guardare alla vita delle piante innanzitut­to perché dipendiamo da esse: sono le piante che rendono possibile l’abitabilit­à di questo pianeta, liberando ossigeno. Il che ci ricorda che non esiste un ambiente naturale, perché ogni ambiente è un artefatto di una o più specie. Il rispetto che dobbiamo al pianeta non è un rispetto dovuto a una natura che funziona automatica­mente, ma agli artefatti di altre specie.

Poi dipendiamo dalle piante perché sono le piante che afferrano l’energia solare e la conservano sotto forma di legami chimici nella materia e rendono possibile qualsiasi nostra attività. Questo ci insegna che la nostra vita è sempre la vita di qualcuno vissuto prima di noi: mangiare significa nutrirsi di una vita che qualcun altro ha costruito.I viventi mangiano solo viventi, tranne le piante che “mangiano” luce: in fondo l’alimentazi­one è uno strano commercio di luce che passa di specie in specie, di genere in genere, di regno in regno.

Ma il titolo dato all’incontro è un po’ ambiguo: guardando le piante capiamo meglio chi siamo e che cosa è la vita sulla terra, ma non dobbiamo prendere in ostaggio un altro regno per risolvere i nostri problemi.

 ??  ?? ‘Dobbiamo guardare alla vita delle piante innanzitut­to perché dipendiamo da esse’
‘Dobbiamo guardare alla vita delle piante innanzitut­to perché dipendiamo da esse’
 ??  ?? Emanuele Coccia
Emanuele Coccia

Newspapers in Italian

Newspapers from Switzerland